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Perché scriviamo?
Perché ci piace, certo. Anche per comunicare, sì: è il nostro modo, probabilmente non potremmo farlo in altra maniera.
Per raccontare qualcosa? Probabile.
In realtà c’è un altro motivo, che nasce dal subconscio e diventa cosciente (o forse no) solo quando “vive” effettivamente su carta.
Ci arrivo con due esempi letterari, andiamo, come al solito, per gradi, ma prima devo fare una precisazione che riguarda la scrittura stessa, intesa qui come utilizzo della parola in tutte le sue potenzialità.
Che la parola sia una forma espressiva lo sappiamo, credo, abbastanza bene, e non ci voleva esattamente un genio per capirlo. Che la parola sia quel qualcosa che valorizza il concetto espresso, invece, lo si dimentica con molta facilità: ci esprimiamo male, spesso pensiamo anche peggio.
Nel caso che ci riguarda strettamente s’è persa, in molti casi, la capacità narrativa, quel quid che ti dovrebbe inchiodare alla lettura o all’ascolto e farti dire “Cazzo, che figata!”. In musica va per la maggiore un immaginario erroneamente decadente, fatto di parole comuni ma prive di qualsiasi tensione poetica (l’esempio fattibile è l’utilizzo spesso compulsivo di varie marche di delivery e robe simili: un linguaggio volutamente “basso” ma assolutamente vuoto).
Nell’ambito che mi riguarda, la scrittura intorno alla musica, se possibile la situazione è anche peggiore: “sinteticità” è la parola d’ordine. Con l’effetto, abbastanza prevedibile, di buttar giù ignobili abbozzi di comunicati stampa mal pensati e peggio scritti, l’ormai arcinota scimmia con la matita in culo che colpisce ancora.
Alla luce di questo enorme depotenziamento delle capacità della parola urge, perciò, rimettere al centro un po’ di cose, prima fra tutte la parola stessa, e seconda- non certamente per importanza- la funzione che la parola ha.
Torniamo alla domanda iniziale: perché scriviamo?
E qua ci inerpichiamo nel discorso letterario, partendo da quel gigante che è stato Gabriel Garcia Marquez e da quel suo geniale aforisma sulla nascita della letteratura, “La letteratura è nata quel giorno che Giona è tornato a casa e ha raccontato alla moglie che aveva fatto tardi perché era stato inghiottito da una balena.“
Game, set, match. Un concetto che oggi verrebbe espresso in modo molto più cattedratico, più quadrato. E invece no: Marquez tira fuori questo colpo di genio.
E ridà vita.
La letteratura fa quello.
Ridà vita.
Ma non con la solita menata che la cultura è vita eccetera eccetera, cosa verissima e sacrosanta, ma ultimamente anche abbastanza retorica.
No, letteratura e scrittura ridanno vita nel senso più alto e, scusate il gioco di parole, letterale del termine:
“E tu, onore di pianti, Ettore, avrai, Ove fia santo e lagrimato il sangue Per la patria versato, e finchè il Sole Risplenderà su le sciagure umane. ”
Chiaramente a scrivere questi versi incredibili era Foscolo, in quella che è una delle più potenti manifestazioni poetiche di tutti i tempi, il Carme dei Sepolcri, un’opera che spiega nel senso più profondo e più vero cosa significhi scrivere.
L’Iliade è stata scritta attorno all’ottavo secolo avanti Cristo.
Ottavo secolo avanti Cristo.
Significa quasi tremila anni fa.
E noi ancora oggi stiamo a parlare di Ettore e dei suoi amici.
Di gente che probabilmente non è nemmeno esistita.
Gente che ha preso vita solo perché un simpatico gruppetto di aedi si andò tramandando le loro gesta.
Scriverlo rende poco, me ne rendo conto, e vorrei tanto avervi davanti e raccontare queste cose a voce.
Ma il succo è quello.
La letteratura e lo scrivere sono una nascita, in alcuni casi una risurrezione, in altri ancora un lasciapassare per l’immortalità.
Il famoso “non omnis moriar” di Orazio, per buttarla di nuovo in letteratura.
Questa enorme cascata di parole serviva ad introdurre un album che incarna alla perfezione sia la tensione poetica che mira all’immortalità sia la necessità della scrittura, come esercizio di liberazione, che segua essa una anabasi personale o un percorso da palombaro.
Si tratta di “Nemico pubblico”, nuovo album di Von Datty, al secolo Roberto Datti, che è il suo quarto lavoro e che segue di quattro anni il precedente “Ninnenanne”.
“Nemico Pubblico” è un album nel quale la canzone d’autore, quella fatta di testi taglienti ed importanti, incontra le atmosfere noir ed a tratti sporche di un poliziesco, un Foscolo musicato dai Calibro 35.
Con questa presentazione a fare da lancio direi che possiamo partire verso il racconto di questo album, che di parole ne abbiamo sempre usate troppo poche.
Ad aprire il disco è “Intro”, un recitato secco e netto di uno che da queste pagine c’è passato già un paio di volte, certo Lucio Leoni, uno bravo sul serio. Ogni suo recitato è incessante, e se Rob voleva un inizio col botto, beh… chiamare Lucio Leoni a recitare era il modo migliore di avercelo.
“Gli aspetti generali”, sarò onesto, di primo acchito mi ha fatto venire voglia di non sentire il resto dell’album, essenzialmente per un motivo: m’era sembrato che cantasse Renga. In un momento di lucidità letteraria, certo, ma sempre Renga. Fortunatamente non mi sono lasciato prendere dal disfattismo ed ho proseguito l’ascolto. Il pezzo è anche molto bello, con una splendida sezione di fiati in coda ed un bell’arpeggio di chitarra elettrica a trainarlo. Oltre a questo, il testo è davvero notevole: “Io voglio vivere per sempre, come fanno le opere. Io voglio scendere sul fondo e rialzarmi a mani nude, sopra montagne di parole. ” Peccato, ripeto, per la voce, ma…
… poco male, dal momento che già su “Spleen” le cose si sistemano: stavolta il cantato è più duro, più incazzato, in linea col testo, uno spaccato caustico ed acido del fare dischi negli “anni così famelici” della musica liquida. I riff di synth sono un enorme balzo negli anni ’70, la chitarra elettrica oscilla fra il funk tiratissimo della ritmica e la circolare vorticosità della linea solista, mentre i fill scatenati della batteria trovano un incastro perfetto con le linee di basso ipnotiche.
Altra collaborazione d’eccezioni nella terza traccia: la voce di Roberto Dellera aggiunge sfumature a “Maledetti giorni”, pezzo dall’afflato noir e soffocante, sorretto da un tappeto di archi sintetici, sui quali si staglia imponente una profondissima linea di basso. L’unica apertura melodica arriva nel ritornello, cantato proprio da Dellera ed impreziosito da un muro elettrico e distorto. E’ un pezzo che parla di ansie, e Von Datty restituisce alla perfezione quel clima lì con uno spoken cupo e martellante.
“Latte” è probabilmente il pezzo più classico dell’album, trainato da synth e pianoforte, con una chitarra elettrica a dare coloro con le sue svisate e la linea di basso che avvolge e lega tutto. Il sax a spingere sul finale è il definitivo tocco di classe su un pezzo intenso e dai gradevoli accenti retrò.
Ancora un featuring su “Hanno bendato il mio cuore”: stavolta è Lara Martelli a prestare la sua voce su questo tango sporco e polveroso di tex- mex. Un dialogo fra due solitudini perfettamente interpretato da due voci che insieme si sposano alla grande, con un riff di chitarra ossessivo, reso ancora più dinamico dalla linea di basso e colorato dai contrappunti dei synth.
“Nervi” è una scossa di funk, un pezzo che cavalca il groove in tutti i suoi elementi: basso e chitarra si rincorrono, e si raggiungono, si incontrano e si scontrano alla perfezione, mentre le note del synth scuriscono l’atmosfera del pezzo, rendendola davvero da film noir. Atmosfera restituita anche da alcuni topos letterari propri di un bel poliziesco d’altri tempi (questa come scena iniziale sarebbe perfetta), fra uomini stravaganti, femmes fatales ed alcool.
Un bluesaccio elettricamente corrosivo scandisce “Due animali feroci”, la cui calma apparente è costantemente squarciata da delle vigorose schitarrate. La voce è potente e piena, esattamente come il pezzo, il racconto è quello di un incontro maledettamente umano nel suo essere genuino e puro.
Anche “Spy Story” è uno di quei brani martellanti, a tratti oppressivi, con un basso asfissiante, dei fill di batteria ossessivi ed un tappeto di synth sospesi a legare tutto.
Anche qui la tensione interpretativa incarna alla perfezione il pezzo, mantenendo un timbro cupo e sempre in bilico fra il cantato ed uno spoken serrato.
La summa del disco è, guarda un po’, la title track: “Nemico Pubblico” è un pezzo diviso in due, una prima parte, che ritorna sul finale, completamente immersa nel noir più disturbante ed angosciante, fatta da un arpeggio di chitarra, da un tappeto di syhnt oscuri e dalla solita linea di basso profonda ed incessante, ed una seconda parte, il nucleo centrale più aperta e con un muro di chitarra distorta a trainarla. A conclusione di tutto ritorna il recitato di Lucio Leoni: “Il vento no, non lo puoi fermare. Qualcuno, un tempo, sosteneva che in alternativa si potesse imparare a fabbricare mulini. Ma se davvero è il costume che indossi a starti stretto, potrai sempre lanciarti contro il vento. O contro i mulini. ”
A chiudere il disco è il remix di “Maledetti giorni”, trasformato in una versione ancora più cupa, nella quale anche l’apertura melodica del ritornello viene cancellata, rendendo il pezzo un concentrato di buio e claustrofobia musicale.
Il pregio di questo lavoro è esattamente quello di aver rimesso al centro la parola ed il suo peso. Dal suo afflato incazzato viene fuori una forte necessità comunicativa, densa di argomenti e di tensione poetica. Un album che procede per lucidi racconti fotogrammabili.
Praticamente è arte a 360°.
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