Intorno a questo ragazzo di appena 24 anni aleggia già il mito del cantastorie girovago, dell'artista senza radici capace di immortalare in indimenticabili melodie tutto quel che frulla dentro la sua malandata sensibilità. Leggenda vuole che Micah P. Hinson sia stato precocemente scacciato di casa da una famiglia di fondamentalisti cristiani, che abbia amato - lui, fragile ragazzo texano - una bellissima modella che ben presto se l'è data a gambe, e che sia poi fortunosamente giunto nella Londra delle metropolitane e dei ponti enormi, sotto i quali ha dormito nelle umide notti invernali. Un background, questo, da far immaginare rabbia e orgoglio, ribellione e sregolatezza, e che invece ha dato vita ad una creatività ordinata, introspettiva, equilibrata, la cui leggerezza paradossalmente appare gravata di enormi carichi. Micah P. Hinson And Gospel Of Progress (Sketchbook/Goodfellas, 2004) è un disco notturno, invernale, in cui il folk che ne costituisce l'ossatura trova qua soluzioni acustiche alla Nick Drake, là melodie decadenti alla Hugo Race, altrove aperture strumentali di fiati e di archi che ricordano quelle malate dei Tindersticks. Non lo si può tuttavia definire un disco pessimista. Micah P. Hinson sembra anzi aver trovato nelle sue canzoni la pozione magica in cui purificare e decantare la sua innata malinconia, al modo di un grande poeta desideroso di ingabbiare in poche delicate armonie la caotica esperienza del reale. Questo, forse, il ruolo ricoperto dal gospel, che in realtà è quasi assente nella musica. Esso è da intendersi più come un'attitudine, una disposizione dell'anima a intonarsi, a raccontarsi, a divenire canto. In fondo "gospel" vuol dire "buona novella", quella che Micah P. Hinson estrae dal suo inquieto girovagare, dal suo errabondo progress per incastonarla in un disco nero, profano, ma altamente spirituale.
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