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Oggi cominciamo (o meglio, ricominciamo) parlando di scrittura ed, ancora di più, di narrazione.
Mi sembra abbastanza palese, se non addirittura superfluo, ricordare che i modi di approcciarsi alla scrittura sono cangianti da contesto in contesto: chiaramente, se sto scrivendo una commedia, tralasciando il lavoro preparatorio (che comunque per me è il medesimo, dal momento che spesso gli articoli li sceneggio, mettiamola così), devo tenere conto di una serie di codici di scrittura da usare, devo usare, cioè, dei riferimenti formali che possano permettermi di riuscire a creare il famoso contrasto che deve esserci in un testo teatrale, drammatico o comico che sia.
Mentre, come avrete notato, su queste pagine il mio approccio è chiaramente più netto, l’unico contrasto che devo creare è tutto interiore, e riguarda spesso solo il modo di affrontare un articolo, o meglio, di affrontare l’inizio dell’articolo, che è forse il punto che più mi stuzzica.
Ma c’è una ulteriore distinzione da fare, quella fra la veridicità e l’onestà di ciò che si scrive.
Parto da molto lontano: Manzoni apre “I Promessi Sposi” col famoso manoscritto anonimo, ma avrei anche potuto citare Cervantes o Ariosto o Matteo Maria Boiardo, il topos letterario utilizzato è il medesimo. Questa apertura col racconto del ritrovamento di un manoscritto che riportava la storia di Fermo e Lucia è vera? Per nulla. È onesta? Assolutamente sì, fa parte della tecnica narrativa, diventa un espediente come un altro.
Dice: “Ma allora chi scrive, scrive tante fregnacce?”
No, assolutamente no. Chi scrive ha, però, l’esigenza di dare una forma non canonica, diversa dal parlato comune, ai frutti della sua penna.
E con “diversa dal parlato comune” chiaramente non voglio dire che deve utilizzare medievalismi o chissà che, lì subentra la capacità di creare mondi con le parole, di saperci giocare, di inventare sensazioni.
Non deve essere necessariamente vero, deve essere onesto.
Essere onesti significa scrivere per necessità, ed alla fine della fiera è quello che conta.
Poi, sempre per necessità, o più semplicemente per comodità, puoi scrivere facendo arzigogoli con le parole, tirando fuori figure retoriche altissime, purissime, levissime.
Ma puoi anche scrivere usato la tecnica della kick- boxing: sparare cazzotti in faccia all’ascoltatore, e chi si è visto si è visto.
Sono due modi di approcciarsi, e non è detto che uno sia valido e l’altro no, o che uno sia corretto e l’altro no.
Anche perché sono due approcci figli, in qualche modo, del tuo percorso di vita, delle tue influenze, ed è impossibile sindacare su quello.
Non si tratta di verticalità od orizzontalità della scrittura, che, essendo un linguaggio cinematografico, per di più utilizzato da chi sceneggia, quindi non necessariamente sotto gli occhi di tutti, montato su discorsi che riguardano la canzone è una gran cazzata.
Si tratta di mettere insieme i pezzi di un vissuto, tutto lì.
Come esempio del secondo tipo di approccio, quello del cazzotto in faccia, c’è un disco, uscito fresco fresco, che è abbastanza esemplare, e lo ha tirato fuori uno dei nostri autori che, se volessi mantenermi neutro, inserirei fra quelli più interessanti della nuova scuola cantautorale.
Ma siccome neutro non lo sono mai stato, né mi va di esserlo, dico molto apertamente che è fra i miei preferiti, che lo seguo da quando andava a suonare ai Candelai, a Palermo, coi biglietti che costavano cinque euro ed il suo primo disco forse ancora nemmeno ufficialmente uscito.
Sto parlando, e lo faccio con un piacere immenso, di Francesco Motta, già tenchianamente bitargato, e del suo “Semplice”, album ancora caldo caldo.
Per Francesco questo è il terzo lavoro in studio, e si pone, lo dico da subito, come perfetto passaggio di sintesi in un ipotetico ed hegeliano movimento triadico: fra la tesi cruda e ruvida de “La fine dei vent’anni” e l’antitesi ricercata ed, a tratti, fragile di “Vivere o morire”, “Semplice” è la sintesi perfetta, il punto di incontro, un mix di classe e potenza, anche letteraria, in forma di canzone.
Lavoro che si apre con “A te”, pezzo introdotto da una sezione di archi che vanno a fare da tappeto e da contrappunto, sostenuto da una chitarra acustica e squarciato da un solo di chitarra elettrica acidissimo e ruvido. Il testo è già programmatico, netto ed inequivocabile: “A quelli che sono da soli/ e non si sono mai accorti/ a chi mi chiede come faccio e fa qualcosa di/ importante/ a quel silenzio chiuso in un abbraccio/ a me che ormai non me ne frega quasi niente”, mentre la coda strumentale introduce fin da subito uno dei leit motiv del disco.
Segue “E poi finisco per amarti”, primo singolo estratto, scandito da un ostinato ritmico di violoncello, che fa da sostegno per tutto il pezzo. Tastiere ed archi aprono il ritornello, facendolo decollare verso vette altissime, alzate ulteriormente dalla voce, all’ottava alta, di Motta, mentre la chitarra elettrica con l’ebow distende il pezzo. Una canzone dall’interessantissima architettura dinamica, che gioca, stavolta sì, su orizzontalità e verticalità musicale, con un testo che, anche in questo caso, fa di una narrazione lucida il suo punto forte, “Oggi è il giorno sbagliato/ e se tornassi indietro ci proverei di nuovo anche se/ non sono riuscito a cambiare niente, figuriamoci a cambiare me”.
Terza traccia è “Via della luce”, pezzo commovente, fra i meglio riusciti dell’intero disco. Un piano che scandisce l’inizio, su cui si innestano alla perfezione degli archi avvolgenti e profondi, che riempiono il pezzo, ed un delicato arpeggio di chitarra acustica. Sul ritornello, un crescendo scandito da un gong rende l’incedere del pezzo un flusso quasi tempestoso, ben accordato ad una parte letteraria potentissima, “Via della luce/ via da quelli che non ci fanno sbagliare/ da quello che non riesco a cantare/ via dalla musica, dalle parole/ da questo malato bisogno di attenzione/ da questa finta guerra che faccio ogni volta/ per poter scrivere una canzone”.
Il primo feat della carriera di Motta si concretizza in “Qualcosa di normale”, e vede la partecipazione di Alice, sua sorella, in un pezzo aperto da un arpeggio fresco e dregregoriano, contrappuntato dai fraseggi di sottofondo e scandito da una linea di basso circolare, con un pattern di percussioni a fare da appoggio per il tappeto di di organo che entra sull’ultimo ritornello. La voce di Alice (e i corsi e ricorsi storici tornano al Francesco principale e principesco di cui sopra) solleva il pezzo, rendendolo ancora più fresco, in quello che è uno splendido elogio delle piccole cose, raccontate con grazie ed una delicata capacità fotografica, “E alla fine non ho più paura/ di stare a cantare/ qualcosa di normale”.
Il giro di boa del disco è una vera e propria cartina tornasole dell’approccio musicale di Motta, un pezzo dall’animo punk (e ci torneremo a fine recensione) scandito da un arpeggio di chitarra elettrica, che si lascia andare successivamente a riff e fraseggi sporchi ed incisivi. Il tappeto di synth fa da perfetto contraltare all’acidità dei fraseggi dell’elettrica. “Sorridimi anche se poi non ci credi/ abbracciami come abbracceresti i tuoi pensieri/ come un ricordo da inventare e una canzone che non c’è”.
La title track è memore dell’esperienza live con Les Filles de Illighadad, gruppo nigerino di desert blues, con cui Francesco divise il palco un paio di anni fa per una manciata di date. Percussioni ossessive da subito ben presenti, un arpeggio di acustica a sostenere, una elettrica a dare sfumature profonde e vorticose, una coda strumentale dissonantemente elettronica compongono la struttura musicale di un brano che fa dell’introspezione la sua caratterista letteraria preponderante, “Semplice/ come la paura di conoscere me stesso/ come ripetere una cosa che ho già visto”.
Segue “Le regole del gioco”, delicato valzer che poggia su un arpeggio di chitarra, dilatato e riempito dalla sezione archi e letteralmente spezzato dal fill di batteria che lancia una ritmica più marcata. “E adesso mi chiedi se ho capito/ se mi lascio cambiare/ se sono forte riesco a chiedere perdono/ o se sono così stupido da farcela da solo/ e quando i fischi diventano un sorriso/ adesso resto alle regole del gioco” sono versi che rendono in modo abbastanza chiaro la bravura letteraria di Motta, che riesce a sminuzzare parti del suo vissuto (il riferimento ai fischi che diventano sorrisi riporta molto al suo Sanremo, alla serata dei duetti vinta con Nada, vittoria accompagnata da fischi stupidissimi di una platea volgare) universalizzandole. Ribadisco, alla faccia di verticalità ed orizzontalità.
Cassa e synth aprono “Estate d’autunno”, pezzo martellato da una linea di basso ossessiva, aperto dagli archi, che anche qui fanno da perfetto contraltare all’atmosfera del pezzo, entrandovi dentro alla perfezione in un secondo momento, con degli ostinati psichedelici che rendono il pezzo una tempesta perfetta, complice un ritornello fatto letteralmente esplodere dalla voce di Motta. “Se fossi stato bravo a scuola/ magari invece che una chitarra/ avrei capito meglio la mattina/ ma quelle notti che duravano cent’anni/ e quei discorsi che sembravano importanti”.
Penultima traccia è “Dall’altra parte del tempo”, che si apre con un ipnotico arpeggio di chitarra classica che poggia su un tappeto di percussioni, con un ritornello che apre e si allunga grazie agli archi, una linea di basso vorticosa e collosa, i fraseggi della chitarra elettrica che colorano in sottofondo. Un intermezzo elettrico ed, a tratti, dissonantemente acido fa da lancio al finale del pezzo, quasi sinfonico. “E rimani così nei ricordi degli altri/ dove prima ho buttato i miei sogni/ e poi tu sei andata a cercarli/ ma ora è sempre più tardi/ va bene così dall’altra parte del tempo”.
A chiudere il lavoro c’è “Quando guardiamo una rosa”, pezzo che vede alla scrittura un’altra delle migliori proposte della nuova canzone d’autore, vale a dire Dario Brunori. Pezzo sorretto da accordi secchi di chitarra elettrica, contrappuntati da un violoncello brumoso ed ostinato, che va a fare da apertura melodica nel ritornello. Il finale strumentale è la liberazione finale, catarsi nervosa e percussivamente incessante, l’unica fine possibile per un disco del genere. La narrazione prosodica del pezzo si snoda attraverso una metrica serratissima nelle strofe, più ampia nel ritornello, quella letteraria attraverso un presente letto non dalla finestra di casa propria, ma dalla strada, un approccio sanguigno col nostro tempo, di cui la già citata metrica incalzante è perfetta rappresentazione. “Parlami delle mie mani, di questa specie di esseri umani/ parlami della paura di vivere insieme una vita sola/ Quando guardiamo una rosa tu pensi a qualcuno, io penso a qualcosa/ perché mi piace restare a galla, i piedi per terra e cavarmela”.
In conclusione, siamo di fronte ad un disco di pura architettura musicale, frutto di un egregio lavoro di produzione (lo stesso Motta e Taketo Gohara, una vera garanzia) e delle tessiture stratificate che i vari musicisti (Giorgio Maria Condemi alle chitarre, Cesare Petulicchio alla batteria, Matteo Scannicchio alle tastiere, Carmine Iuvone, che ha curato gli archi, Mauro Refosco alle percussioni e Bobby Wooten al basso) riescono a cucire, tirando fuori un gioco di incastri perfetto, in cui ogni cosa è al proprio posto.
Notevole, come sempre, anche la prova vocale di Motta, che riaccende il suo ottovolante delle ottave, salendo e scendendo, scavando dentro o buttando fuori, in un connubio splendido fra capacità vocale ed interpretativa.
Un disco, questo, che rispecchia alla perfezione Francesco anche nella sua essenza live: io non lo so se abbiate mai avuto la fortuna di vederlo dal vivo, io sì. E vi posso garantire che è assolutamente punk, si mangia il palco a morsi, rende anche i suoi pezzi più “tranquilli” delle tempeste di suoni. Ecco, questo disco nasce esattamente così, la sua dimensione live sarà di certo ancora più dirompente e detonante.
Chiudo dicendo che siamo di fronte ad un disco genuino, fatto di ricerca musicale e purezza letteraria.
Così…Semplice.
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