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Qualche giorno fa, leggendo un articolo sul nuovo (ed infuocato) ep dei Ministri, mi sono trovato davanti ad una “massima” che mi ha fatto trasalire.
Si affermava come, la faccio breve, una narrazione fosse un reportage obbiettivo di un fatto.
Ora, che sia una fesseria talmente campata in aria da volare nella stratosfera, lo potete capire anche da voi stessi, senza il mio aiuto.
In realtà apre ad una riflessione abbastanza interessante, che abbraccia non solo l’argomento della critica musicale, ma anche il concetto stesso di canzone.
L’ho scritto un sacco di volte, il nostro lavoro, quello per cui non ci pagano, ma che, in un modo o nell’altro, ci identifica e ci legittima, quello di parlare di musica, in un momento storico in cui sembra quasi superfluo già ascoltarla, la musica, è abbastanza inutile.
E qua si arriva al punto, che riguarda strettamente la narrazione.
Come dicevo sopra, il discorso riguarda sia l’ambiente di cui facciamo parte, la scrittura intorno alla musica, che quello di cui parliamo, la musica in sé e per sé.
Già da qua si capisce come pretendere obbiettività sia stupido: io obbiettivo non lo sono. Non lo sono già da quando scelgo di cosa parlare e di cosa non parlare. E dirò di più, questa non obbiettività la rivendico fermamente, è la mia cifra, sono spudoratamente soggettivo.
La nostra scrittura intorno ad un disco è, o quantomeno, dovrebbe essere né tanto né quanto una vera e propria narrazione: il nostro lavoro è parlare di un album raccontandovelo e cercando di stimolarvi nell’ascolto. Proprio per questo una buona recensione deve saper creare una certa atmosfera attorno ad un lavoro, e della narrazione vera e propria deve avere i ritmi e, in qualche modo, la teatralità.
Proprio per quello non può esserci obbiettività.
Deve esserci, semmai, coerenza, e la differenza è sostanziale.
Andiamo all’obbiettività nella narrazione che ha la forma- canzone.
Lo faccio con due esempi, uno già citato, i Ministri, con cui ho aperto il pezzo, l’altro con quello che sarà il protagonista dell’album narrato oggi, vale a dire, spoiler necessario, Vasco Brondi.
Parlo dei Ministri e di Brondi non a caso, la coincidenza felice che ha voluto l’uscita a stretto giro di “Paesaggio dopo la tempesta” del primo e “Cronaca nera e musica leggera” dei secondi mi aiuta non poco.
Perché entrambi stanno, fra l’altro con ampio merito, in un interessante saggio di pura e vera critica musicale di Alessandro Alfieri, “Musica dei tempi bui. Nuove band italiane dinanzi alla catastrofe”. Il libro, pubblicato nel 2015, ma ancora attualissimo, visti i tempi non meno catastrofici, che, fra le altre cose, consiglio non solo agli addetti ai lavori, si approccia alla forma canzone nel miglior modo possibile, vale a dire mettendo in primo piano il rapporto strettissimo che band come Il Teatro degli Orrori, Il Pan del Diavolo, i già citati Ministri ed il Brondi de Le Luci della Centrale Elettrica (ed ancora tanti altri) hanno con la catastrofe, col farsi decadente del nostro tempo. Parlavo di pura e vera critica musicale perché è esattamente il tipo di dissertazione che vorrei vedere, quella che mette al centro l’importanza civile di una canzone (senza prescindere dal discorso musicale) e perché è fondamentale interfacciarsi con essa per capire i nostri tempi.
Ad ogni modo, la faccio molto breve, la differenza di approccio artistico e narrativo fra la band milanese ed il cantautore adottivo di Ferrara, in barba alle narrazioni obbiettive, sta proprio nel rapporto che le due poetiche hanno con la catastrofe: i Ministri ci si immergono dentro, la guardano negli occhi, ci fanno a cazzotti, è una catastrofe vera, trattata con assoluta coscienza, dalla quale bisogna difendersi per, al contempo, difendere la propria artisticità. Una catastrofe raccontata senza mezzi termini, con testi spietati e, per certi versi, quasi titanisti, nei quali la narrazione diretta della catastrofe diventa catarsi, e l’autocoscienza della catastrofe diventa prova che la catastrofe stessa ancora non ci ha inghiottiti del tutto, che c’è un barlume di speranza.
In Vasco Brondi la narrazione è più distaccata, la catastrofe diventa quasi sfondo, ed il racconto della catastrofe procede per simboli, tramite quelli che, nella poetica di Brondi, diventano dei veri e propri topoi letterari, richiami costanti alla decadenza, rimandati all’ascoltatore tramite immagini concrete, che diventano, giusto per rimanere sul tema del saggio di cui sopra, “trasfigurazione poetica” della catastrofe.
Brondi ha, nel raccontare la catastrofe, la capacità di mischiare vari piani di lettura (un esempio potrebbe essere “Luminosa natura morta/ con ragazza al computer”, da “I destini generali”, due versi che hanno già dentro tutto un immaginario e tutta una civiltà), oltre a quella di “solidificarla” in immagini ben precise, fra tetti di eternit, sert, ciminiere e sovraffollate arterie autostradali, tutte immagini profondamente pragmatiche e che rimandano ad una provincia polverosa, sudicia ed in totale disfacimento.
Non è un caso, fra l’altro, che “Canzoni da spiaggia deturpata”, primo album de Le Luci della Centrale Elettrica si piazzi a metà fra “I soldi sono finiti” e “Tempi bui”, rispettivamente il primo ed il secondo lavoro dei Ministri.
La narrazione di quello zeitgeist, capite bene, è tutt’altro che obbiettiva: nel racconto stesso, nel suo approccio narrativo, ci sono già due soluzioni per contrastare la catastrofe.
Ma è, come si diceva sopra, una narrazione estremamente coerente e lucida.
Coerenza e lucidità che Brondi si porta dietro anche nel già citato “Paesaggio dopo la battaglia”, primo disco interamente a suo nome, che ha, fra le altre cose, giusto per rimanere in tema, Federico Dragogna (insieme a Taketo Gohara) come produttore, vedi alle volte gli scherzi della vita.
Sono passati quattro anni da “Terra”, ultima apparizione da studio de Le Luci della Centrale Elettrica, e ben tredici da quel dolente capolavoro detonante che fu “Canzoni da spiaggia deturpata”, vera rivoluzione di forma musical- letteraria che aprì gli anni ’10.
Album, questo nuovo, che gioca molto su una circolarità evocativa interessante, partendo dal fatto che molte delle storie raccontate sono, guarda caso, “seconde parti”, per così dire, o- se volete- nuove vite letterarie dei protagonisti di “Canzoni da spiaggia deturpata”, proseguendo con la carica evocativa della copertina (una foto inedita di Luigi Ghirri, che, nella sua vasta desolazione, riporta con forza alla mente la straniante vastità del paesaggio di “Tabula Rasa Elettrificata” dei CSI).
In mezzo, tutti i topoi letterari propri della poetica brondiana, fra disillusione e marciume.
Un lavoro che si apre con “26000 giorni”, pezzo introdotto da un tappeto di archi e synth largo e dilatato, che cresce imponente nel ritornello. Molto bello (ma come sbagliarsi) l’aspetto letterario del pezzo, “Su di noi è tranquilla la furia degli elementi/ Come sugli alberi che muoiono in piedi/ Sulle strade chiude per lavori/ Sorpresi di essere vivi/ Hai perso tutto sei lì che ridi/ Siamo come quegli animali/ Che nei posti più impervi ci fanno i nidi”, fatto, anche in questo caso, di una commistione fra piani di lettura, fra la potenza inarrestabile della paura, la piccolezza dell’uomo e, contestualmente, la grandezza della sua fame di esistenza.
Un altro incrocio perfetto con lo scorrere incessante della forza della natura apre “Ci abbracciamo”, pezzo incalzato da un ritornello ossessivo e sorretto da un piano, ben coadiuvato, a sua volta, dai contrappunti di archi e fiati. Splendidi alcuni passaggi del testo, il moto leopardiano del “I fiori che guardo continuano implacabili a non vederci”, o- ancora- il mescolare i registri del “Cambieranno le mode, cambieranno i lavori, vi/ faremo sapere/ Intanto puoi sorridere alle mille telecamere/ nuove installate alla stazione”, col suo passaggio dalla trascendenza di un futuro che arriverà alla immanenza del progresso spicciolo.
Seguono i toni nostalgici di “Città aperta”, accentuati da un pianoforte delicato e da un pattern di batteria sommesso ed elegante, mentre l’elettronica ed i fiati allargano l’atmosfera, rendendo l’idea di un ricordo lontano e tenero.
Anche qui il racconto procede per metafore dall’alto lirismo, con accostamenti originalissimi come “Il tuo cuore senza confini/ Scoperchiato come Notre-Dame a fuoco/ Hai lasciato Parigi, Parigi l'hai persa/ Come nel 1940, l'hai lasciata alla Wermacht/ Parigi città aperta/ Mi hai scritto: "Ti vedo diventare padre/ Fare perdere le tue tracce/ Ti vedo scrivere su un treno, in un bar / Ancora agitarti, cercando la pace/ Per sempre agitarti, cercando la pace", strofa in cui, per l’ennesima volta, registro poetico e narrazione si fondo perfettamente, con l’immagine altamente evocativa del cuore scoperchiato come Notre- Dame a fuoco, e con il contrasto finale dell’agitarsi cercando la pace.
Quarta traccia è la title track, una sorta di “Viva l’Italia” 2.0, contrassegnata da un bell’incontro fra il pianoforte e la sezione fiati, che allarga e solleva l’atmosfera, mentre una linea di basso avvolgente si sposa alla perfezione con un pattern di batteria giocato ancora su toni delicati ed evocativi.
Qui la mescolanza del testo ha a che fare, più che con un registro letterario, con un registro storico, nel quale si incontrano l’Italia partigiana di Fenoglio, quella attuale dei rider sfruttati, quella contemporanea delle terapie intensive, quella drammaticamente unita nelle tragedie dei sismi, quella accogliente della Porta d’Europa “rovinata dai decreti, dai venti”.
“Hanno trovato dei reperti/ Non volevo svegliarti/ Dove vedi ipermercati/ Ci saranno deserti Rose dei venti/ Noi sconfitti e contenti”.
Giro di boa dell’album affidato a “Mezza nuda”: anche qui abbiamo un pianoforte a tirare le fila del discorso, con dei fraseggi di chitarra elettrica a colorare ed il solito tappeto di synth che, in questo caso, dà solidità e stabilità.
“Ricordi il piazzale dietro casa dove ballavi da sola/ Il monumento ai caduti, morti per noi sulla collina/ Eri così magica e così insicura/ Con una chitarra economica ti aprivi la gabbia toracica E usciva la musica” è un altro esempio di commistione perfetta fra la concretezza del racconto ed il lirismo della poesia, reso alla perfezione dall’inserire in un contesto comune come il piazzale dietro casa una immagine potente ed, a tratti commovente, come la musica che sgorga dalla gabbia toracica.
“Due animali in una stanza” vede sempre un pianoforte a fare la voce grossa, con un timido strumming di acustica che entra sul finale, e la sezione fiati che, insieme ai fraseggi della elettrica e ad una linea di basso profonda, fa da elemento di dinamismo nel brano.
Qui mi ricollego al rapporto di Brondi con la catastrofe: l’amore, il ricordo dell’amore, riscatta interamente la catastrofe stessa, ed il circostante, seppur in caduta libera, non riesce ad intaccarne la potenza eversiva: “E anche sul pianeta Terra tutto cambia/ E forse ci sarà una guerra per l’acqua/ Ma noi due a dire ancora, ancora, ancora/ No, non è più come prima/ Evvia, non è più come prima”.
Momento di stacco, quasi a sé stante, del lavoro è “Adriatico”, valzer con un arrangiamento a metà fra liscio e sagra di paese (e vuole essere un complimento), scandito dai fantasiosi gorgheggi dei fiati e dai delicatissimi fraseggi della chitarra elettrica, che regalano al brano un’atmosfera ariosa e libera.
Anche in questo caso l’incontro fra due mondi narrativi è peculiare, l’Adriatico fa da perfetta fotografia di un contrasto forte: da un lato la profonda vitalità della natura e dello “spazio poetico”, dall’altro l’immobilità, tutta automobilisticamente umana, delle centinaia e centinaia di file ferme nel traffico.
“Un fuoco sulla spiaggia/Lo stiamo a guardare/ Gli chiediamo chi siamo, cosa fare/ Come un gabbiano che non riesce a capire/ Dove finisce il fiume, dove inizia il mare/ Sta lì a gridare/ Che la nostra vita sia splendida/ Come quest'acqua resti torbida”.
“Luna crescente” apre un mini- nucleo tematico all’interno del disco, fatto di smarrimento, nostalgia e bisogno di cercarsi, in un mondo che cambia e con il tempo che passa. Un pezzo scuro, buio, sorretto solo da un arpeggio di piano, che poggia su un tappeto di elettronica, impreziosito da archi e fiati, e su un pattern di batteria che gioca molto su tremolanti piatti.
Un pezzo umido, smarrito, che trova nel suo afflato sospeso la giusta chiave narrativa dello smarrimento che lo permea. “Ho chiesto un parere alle rocce cadute/ Sulla statale, ma stavano male/ E un consiglio alle spiagge sparite/ Ai campi distrutti dalle grandinate”.
Nucleo tematico chiuso da “Chitarra Nera”, probabilmente il capolavoro dell’album, in cui uno spoken word incessante incontra un tappeto densissimo e profondo di archi ed elettronica.
Un enorme e catartico flusso di coscienza, con una forma letteraria tutta sua, che sembra più una lettera che una canzone, in cui registro narrativo personale (“Sognavo che facevo il mio vecchio lavoro quando tornavo/ Quello di quando avevo diciott'anni e c'erano ancora tutti/ Tutti a pezzi e senza figli, sorridenti”) e registro narrativo universale (“La musica adesso è un’altra cosa/ tutti cercano di sponsorizzarti, musica e alta/ moda/ […]/ Tutte celebrità/ Suoni o fai pubblicità?”) vengono impastati insieme dallo scorrere e dall’evolversi del tempo.
Chiude il disco “Il sentiero degli dei”, sostenuto da un delicato arpeggio di chitarra acustica colorato da interessanti spruzzate di elettronica e, soprattutto, dai contrappunti larghi e freschi dei fiati.
Pezzo che, ancora una volta, mette al centro il rapporto uomo- natura (“Fammi tornare a guardare/ Le nuvole passare/ Le volpi davanti alla cattedrale/ I cervi per le strade/ Siamo solo due forme di vita sul terzo pianeta/ Del sistema solare”), in una prospettiva di riproporzionamento dell’uomo nei confronti della natura stessa.
A balzare alle orecchie, oltre che la stratificata ricerca degli arrangiamenti, non può che essere la prova vocale di Brondi, che anche in questo caso fa da cartina tornasole dell’evoluzione umana ed artistica: c’è un pathos interpretativo tutto nuovo in questo nuovo esordio, completamente diverso dal tormento urlato e dilaniato di “Sere feriali” o “Piromani”, tanto per fare un paragone con il primo disco de Le Luci, chiaramente figlio della nuova veste musicale incontrata. Qui il cantato sfocia spesso nello spoken word, diventa a tratti un recitato fermo ed incessante, che ha nel suo essere quasi monocorde la sua peculiarità.
A livello letterario, come spero si sia capito, siamo di fronte ad un lavoro che è una vera zampata di classe letteraria, un album che, proprio per la sua natura poetica, non contiene il singolo verso che ti inchioda alla sedia, quanto piuttosto una serie di input immaginifici che scaturiscono dalla somma dei vari (e sempre notevoli) versi, e che, per questo motivo, ha bisogno di un ascolto attento e partecipe.
Condizione che, in tempi come questi, è resistentemente necessaria.
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