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Cavalcade è il nuovo album dei Black Midi, Geordie Greep (chitarra e voce), Cameron Picton (basso e voce) e Morgan Simpson (batteria) si ripresentano dopo due anni, dal precedente Schlagenheim, con un lavoro infestato da strani personaggi: un leader di un culto decaduto, un cadavere ritrovato in una miniera di diamanti e perfino l’angelo azzurro Marlene Dietrich.
Le nuove, ansiogene, tracce confermano una frenesia compositiva e ritmica già annusata in precedenza, frutto di una band che ama fondere generi e influenze che comprendono post-punk, funk, passando per il prog fino al math-rock e senza disdegnare il jazz. Nel 2019 il loro desiderio è di registrare qualcosa di armonicamente più interessante e stimolante di quanto fatto in precedenza. Dopo la dipartita del chitarrista/cantante originale Matt Kwasniewski-Kelvin, preso da seri problemi mentali, i Black Midi hanno deciso di espandere il loro suono in Cavalcade e, invece di replicarlo, hanno spostato l’asse avvalendosi del sassofonista Kaidi Akinnibi e il tastierista Seth Evans. Con questo nuovo approccio in mente, metà di Cavalcade è stato scritto singolarmente a casa di ogni componente e messo a punto durante le prove.
Si parte a razzo sulle note ossessive di John L che vola altissima su surfando in cross over fra generi opposti, la voce incalza l’ascoltatore mentre la ritmica spezzettata è resa ancora più ansiogena dagli stop and go e dal piano dissonante in sottofondo. Controtempi, sincopati e accelerazioni tutto nel giro di cinque minuti, che dire, un inizio al fulmicotone che scomoda King Crimson, Mars Volta e Don Caballero mantenendo una base hard core punk nello stile e nell’approccio. Subito dopo virano verso una ballata soul (Marlene Dietrich) che ricorda Bowie nel canto per ritornare a quello che gli riesce meglio, sfidare la pazienza dell’ascoltatore mandandolo in crisi e vincerne la resistenza attraverso sezioni dissonanti, mazzate sonore degne degli Zu e incisi blues dentro una corazza(ta) jazz core, cesellati dal sax impazzito nella successiva Chondramaclia Patella. Quando è il momento di funkeggiare non si tirano certo indietro sparandovi in faccia l’indomabile (Dethroned).
Chiudono con Ascending Forth (più che un loro brano sembra provenire direttamente da qualche penna buona del prog inglese dei seventies), lunga traccia di quasi dieci minuti, lenta e riflessiva, dai ritmi calmi governati da chitarre acustiche e fingerpicking. Mostra solo qualche piccola increspatura armonica in superfice, impossibile sfuggire alla loro stessa natura dissonante, di matrice jazzistica sospinta da figure ritmiche muscolari.
Ma è solo un passaggio, centrale, perchè il viaggio volge alla fine a velocità di crociera.
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