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Mi è capitato di leggere, qualche giorno fa, una intervista di Mogol al Corriere.
Nell’intervista, fra le altre cose (segnalo un tour con una specie di brutta copia di Battisti, roba che anche Pippo Franco nei momenti di scarsa fama si sarebbe rifiutato di fare, in cui il nostro ci spiegherà, dall'alto della sua grandezza, il carico di poesia di versi quali "Non piangere, salame dai capelli verde rame", e di come in origine avrebbe dovuto essere "rosso rame", capite bene che la differenza letteraria è profondissima), diceva, in merito al rap, che “E’ privo di melodie. Uno che fa, canta le parole?
Ecco, questa uscita per me è a dir poco disgustosa.
E non solo, ma è di una imbecillità e di una sufficienza francamente imbarazzanti, nemmeno Sergio Sacchi, che pure ha detto di peggio, ma fra qualche giorno arriveremo anche lì, era arrivato ad inventarsi tali idiozie.
Chiaramente non è la questione della melodia nel rap il punto (e comunque per quello basterebbe sentire quasi tutti i lavori di Murubutu, che sono dei concept anche musicalmente, con quel tappeto sonoro che si trova spesso a fare da fil rouge fra i vari passaggi dell’album, o la ricerca musicale costantemente viva di Caparezza o altri mille esempi, che vanno dalle ultime uscite di Rancore fino a certe aperture melodiche di Ghemon, Dutch Nazari o Willie Peyote), quanto più il modo quasi dispregiativo di quel “canta le parole”.
Nei fatti, questa affermazione più che discutibile, diventa un concreto punto di partenza per centrare ben altro punto, che sta- come spesso capita fra le mie righe- a metà fra musica e parole intorno alla stessa.
O, in questo caso, della stessa.
Io, come molti fra i colleghi delle mie varie bolle social, mi occupo principalmente di canzone d’autore (indipendentemente dalle declinazioni strettamente musicali che il genere implichi, lo sottolineo sempre), e, per mia formazione (o de- formazione, se preferite) e per mio modo di intendere la questione, per me le parole in una canzone, hanno il 50% del peso, sono fondamentali, non sono un elemento che si canta e basta, come se debbano stare un gradino sotto. La parola, in canzone, è qualcosa che sublima la musica stessa, che riesce definitivamente a compiere il miracolo della canzone in quanto tale, e, soprattutto in un mondo in cui la maggior parte dei linguaggi musicale è stata esplorata, l’esplorazione dei linguaggi letterari diventa vera materia viva della ricerca musicale.
Il testo, parere ed approccio personale, sia chiaro, va citato proprio perché spesso costituisce un genere letteraria a sé stante, senza dover necessariamente tirare in ballo gli sfolgoranti cut- up battiatiani o la vera rivoluzione di forma di De Gregori.
Sottolineare la bellezza (al di là di cosa, a seconda dei casi, questo significhi) di un verso, quando se ne ritrova la presenza, rientra pienamente nella “missione” (scusate la solennità quasi ieratica del termine, ma ogni tanto pecco di aggettivazione impropria) di chi si occupa di musica d’autore.
Senza contare, fra l’altro, che alcune delle proposte più interessanti del nostro panorama alternativo si basano proprio su un utilizzo poco canonico della parola in musica, che viene sfruttata in tutti i suoi spigoli ed angoli. Di una di queste proposte parlerò fra qualche riga, le altre due che cito, a buon diritto, sono Massimo Volume ed Offlaga Disco Pax. Li cito perché sono due esempi enormi di come “cantare le parole” possa equivalere, spesso, ad una vera e propria rivoluzione stilistica, e se è vero che lo spoken word non lo abbiamo inventato noi, è anche vero che le esperienze artistiche di Mimì Clementi, Max Collini e rispettivi soci sono quantomeno seminali. Anche perché genitrici, a loro volta, di due approcci- anche letterari- abbastanza differenti: cantori di una nervosa inquietitudine esistenziale i primi, appassionati narratori politici della provincia i secondi, ma entrambi accomunati da una capacità pazzesca di universalizzare storie personali. Dicevo degli approcci narrativi, Mimì è incessante, ha una scrittura che non dà scampo, che procede a strappi, ma sono strappi laceranti, ed è proprio questa sua essenza frantumata a rendere la poesia di Clementi pazzesca.
Max, al contrario, è più narrativo, descrittivo, meno spigoloso. E sono due approcci che si sentono anche a livello interpretativo: Clementi è granitico, incanala la sua verbosità in una asfissiante monotonia. Collini racconta, smussa gli spigoli passando sopra le sue parole una patina di malinconica nostalgia, è più attore.
Tutto questo panegirico per dire che “cantano le parole” un cazzo: siamo di fronte ad esperienze artistiche vere e proprie, con un loro, incredibile, linguaggio, fatto, come si vede, di diversi registri e di diverse pulsioni letterarie e narrative. E, dal momento che, come al solito, è mia abitudine portare esempi in suffragio di quello che scrivo, adesso vi beccate la terza proposta, quella che avevo omesso qualche riga sopra.
Si tratta degli Alan+, nome dietro cui si nascondono Tony Vivona ed Alessandro Casini, entrambi non esattamente dei neofiti del circuito indipendente, le loro esperienze nei Deadburger Factory e nei Le Giardin des Bruit lo testimoniano, che ritornano, a distanza di undici anni dal precedente “Il suono di Soho”, con un nuovo lavoro, il cui titolo, “Anamorfosi” , è già programmatico: l’anamorfosi è nient’altro che un effetto di illusione ottica secondo cui una immagine viene proiettata su un piano in modo distorto, ed è resa riconoscibile solo se guardata da una determinata prospettiva o attraverso specifici strumenti. Lo dico subito, tanto della mia inesistente oggettività ne ho sempre fatto vanto: un album così, con quei suoni, con quelle parole, lo aspettavo da tempo. Era esattamente uno di quei lavori che avrei voluto incrociare fra le mie cuffie e le mie righe.
Un lavoro che incastra perfettamente parole degne della miglior tradizione cantautorale nostrana con un ruvidissimo range musicale che va dai già citati Massimo Volume fino agli Einsturzende Neubauten, incrociando, non a caso, il primo Nick Cave è un mix che mi risulta letale, e che rappresenta un abisso in cui perdersi necessariamente.
Disco che, aperto da “Ancòra”, mette subito in chiaro quale sarà l’atmosfera generale: basso marcatissimo a trainare la sezione ritmica, schitarrate acide che squarciano tutto e barriere di elettronica a riempire ed addensare. Notevole anche il testo, che parte secco e non meno tempestoso della parte musicale, con una serie di immagini fra di loro consequenziali, ma che anche prese singolarmente rilasciano una scarica ad altissimo voltaggio: “L’odore dell’asfalto/ mi perfora le narici/ e seguo l’istinto/ su questa strada/ che diventa destino/ ed inizio a sanguinare/ quando i miei occhi/ incontrano il cielo”. A seguire troviamo la title track, segnata da atmosfere meno tempestose (ma non per questo meno rarefatte) rispetto al pezzo precedente. L’inizio è affidato ad una dilatata intro di pianoforte, sovrastata da un basso vorticoso e dall’incessante strumming di una chitarra elettrica, su cui la voce di Vivona si staglia come narratrice perfetta di un testo che fa dello sgorgare visionario di versi immaginifici (“La sensazione di distacco/ falsata dal sorriso fatto/ per non perdere l’esercizio imparato/ di dimostrare felicità anche quando/ iniettati in questa notte/ che di noi se ne fotte/ viviamo un tempo preciso/ che dal resto/ con un taglio netto/ è reciso” ) il suo punto di forza.
Un arido arpeggio di chitarra elettrica apre “Collisione” (“Immobili ascoltiamo/ immersi nella luce del mattino/ l’estasi di questo momento/ che resterà impresso/ nel tempo” ), scandita da un rarefatto tappeto di synth ed elettronica, e dinamizzata da una linea di basso avvolgente, in un incastro perfetto con un timbro vocale soffuso ma intenso. “Effimero inganno” colpisce innanzitutto per il lavoro di cesello che c’è nella scrittura del testo, ogni parola rimanda ad interi universi sensoriali:“ Strappi di vita/ descritti con minuziosa precisione/ da parole carpite/ altrove/ che trovano un senso/ nell’effimero inganno/ di un piacere temporaneo”. Musicalmente è un pezzo che esplora atmosfere e sonorità quasi industriali, con un arpeggio ferroso ed una linea di basso scarna ed essenziale a fare da elementi di movimento su un tappeto di drum- machine ed elettronica. Giro di boa del disco è “Musa del momento”, che si snoda lungo un tappeto di elettronica, cui risponde, quasi in contraltare, un muro incessante di chitarre elettriche, il tutto montato su un testo che è una sferzata tagliente di precarietà e cinismo, aperto quasi da una ode alla bellezza e chiuso, con un geniale aprosdoketon, con un lapidario “Sei la musa del momento/ ma alla fine il tuo nome/ ricorderò a stento”, in un capovolgimento reso perfetto dal brusco ingresso di una sabbiosa coda di basso a chiudere il pezzo. Su “Come non mai” (“Pesco a caso fra le mie parole/ per descrivere il mio sentirmi altrove/ alla deriva di un destino diverso/ che ha cambiato strada lungo il percorso”) ritorna un afflato rumoristico, sottolineato dal reticolato di chitarra elettrica e di elettronica di sottofondo e dall’effetto metallico della voce, in perfetta aderenza alla tensione incerta del testo.
Molto interessante, anche in questo caso, la coda strumentale, distesa da un largo arpeggio di chitarra acustica e dai volteggi di un pianoforte, in netto stacco con l’atmosfera dominante. “Tengo traccia” è uno dei brani meglio riusciti dell’intero lavoro, con una chitarra elettrica in palm- muting a sostenere la ritmica ed un basso ipnotico a ricamarci su. Interessantissimo anche il synth labirintico e circolare che scuote il ritornello (probabilmente l’unico momento più strettamente cantato del disco). Anche in questo caso, a livello letterario, ci troviamo di fronte ad una narrazione che non lascia scampo, diretta e ruvida, una presa di coscienza quasi epifanica: “Subisco il fascino/ di questi quadri urbani/ che hanno costruito e distrutto/ le stesse mani”.
Altro esempio incredibile di abilità nel mischiare i piani del racconto arriva con “Fino all’ultimo respiro”, racconto crudo (e strumentalmente scarno, sorretto solo da una drum- machine, da un acquoso tappeto di elettronica e squarciato dalle pennate di una chitarra elettrica) di un pestaggio mortale. E’, avendo il testo davanti, impossibile non notare come anche lo stesso linguaggio risenta di questa commistione di registri: allo spettacolare registro narrativo di “Le nuvole erano legate alla terra/ da sottili funi di pioggia/ l’acqua ticchettava debolmente sul nero dell’ombrello/ che mi copriva la testa/ uno sciame di cumulonembi sfilava veloce/ sopra la scena che stavo osservando” si contrappone la penultima strofa, che mette insieme una crudezza quasi animalesca, sostituita un momento dopo dalla più totale nonchalanche: “D’un tratto il tizio col cappello/ smise di menare i colpi/ persuaso che ogni suo nuovo gesto offensivo/ fosse un inutile spreco di energia/ sputò su quello che adesso sembrava essere un cadavere/ prese fiato per qualche lunghissimo istante/ si drizzò sulla schiena guardando dritto verso di me/ poi come se si fosse accorto solo in quel momento che stava piovendo/ si scrollò un po’ d’acqua di dosso/ si accomodò il cappello/ e se ne andò”.
Penultima traccia è “A wonderful side of you” (“Intanto la musica pizzica/ le corde delle nostre anime e vibriamo”), pezzo dai toni più morbidi e dilatati, scandito da un leggero strumming di chitarra elettrica, cui fa da contraltare una linea di basso in odor di distorsione, ma nient’affatto invasiva, che poggia su un elegante tappeto di elettronica. A chiudere il lavoro è “In viaggio”, brano che gioca sul perfetto incastro fra un splendida chitarra acidamente dissonante ed una linea di basso ruvida ma con un interessante groove, che lasciano il passo, all’inizio del parlato, ad un denso muro di synth, su cui si adagia quel “Catturo l’attimo/ e lo cristallizzo/ prima che si dissolva/ e per non dimenticare/ il punto di partenza ascolto/ ancora una volta/ il suono del tuo battito”.
In conclusione, siamo in ascolto di un lavoro da cui sgorga un flusso inarrestabile di poesia, quasi alla maniera dell’ab- joy pasoliniano, un vero e proprio raptus poetico che si traduce in immagini costantemente in ballo fra un lirismo altissimo ed una concretezza spesso cruda e ruvida, in barba a verticalità, orizzontalità ed altre amene cazzate. Anzi, se proprio vogliamo buttarla sul cinema, potremmo dire che questo lavoro ha, tanto nelle sue componenti musicale, quanto in quelle letterarie, un’andatura a tratti tarkovskijana, con i suoi strappi onirici di abbagliante poesia come via di fuga dall’asfissiante grigiore quotidiano.
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