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“Open your eyes, you are free”
Un lavoro splendido, etereo e turbolento al contempo, in cui la ricerca della pace è controbilanciata dal richiamo ammaliante dell’oscurità.
“The Cost Of Dreaming”, terzo album dei White Moth Black Butterfly uscito lo scorso 28 maggio 2021 per Kscope, si presenta all’ascoltatore a 4 anni da “Atone”, disco a cui pone devozione in alcuni frangenti senza però esserne una copia. Il meraviglioso artwork di copertina, ad opera di Ani Artworks, pseudonimo della graphic artist Lenore, è la porta d’accesso a questo terzo capitolo discografico del progetto nato dalla mente di Daniel Tompkins (Tesseract) (con lui in questo album troviamo il produttore e compositore Keshav Dhar, il produttore ed arrangiatore d’archi Randy Slaugh, il batterista Mac Christensen, e la cantante inglese Jordan Turner) nel 2013 e sinonimo da allora di “sperimentazione”, tra pop, progressive e musica ambient.
Intarsi sonori ricercati si intrecciano difatti a cadenzati ritmi dance guidati dall’elettronica, attraversati a tratti anche da venature quasi industrial (Unholy) che poi vanno a placarsi e cedono il passo ad interludi sognanti (Sands Of Despairs, Under The Stars), rendendo l’album al contempo accessibile e ricercato. Vi è poi una apparente dicotomia che permea l’intero lavoro, una labile divisione che alla fine si rivela essere invece specchio del bel sodalizio artistico che ha come casa i solchi di questo disco. Sto parlando del costante dialogo che c’è tra le due voci principali, quella di Tompkins (priva per la maggior parte dei toni più alti che invece usa spesso nei suoi Tesseract) e quella delicata e sognante di Jordan Turner.
Pur non essendo un concept album in senso stretto, l’album migra di traccia in traccia il suo spirito dalla chiara valenza positiva e catartica, come una fulgida fenice che, dipartendo alla fine di ciascun brano, risorga poi all’inizio del successivo, e questo nonostante i temi trattati siano anche velati da oscure ombre, come ad esempio in “Use You”, in cui si esamina il tema degli abusi domestici. E’ un disco che parla una lingua ancestrale volta ad irretire i sensi e le emozioni, per poi gettarli oltre il baratro della paura. I singoli rilasciati, The Dreamer e Soma, sono l’esempio perfetto per comprendere al primo ascolto quanto detto poc’anzi.
C’è poi un bellissimo solo di sax, ad opera di Kenny Fong in “Darker Days”, che si avvicina senza remore a territori colorati da tenui sfumature jazz. “Spirits” conclude la tracklist, e, nonostante i 45 minuti di durata, la lunghezza non appare come un deterrente ma anzi sprona a compiere il viaggio più e più volte, cercando ogni volta di giungere un po' più in là, fino a capire l’importanza, ed il costo, dei nostri sogni.
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