|
La fedeltà assoluta che lega schiere di appassionati al culto dei Mudhoney (band formidabile di Seattle in attività da fine anni Ottanta) è dovuta anche alla musica entusiasmante sprigionata dai solchi di questo album, il secondo inciso dal gruppo. La Sub Pop festeggia i trent’anni dall’uscita di “Every Good Boy Deserves Fudge” con un’edizione remasterizzata in doppio disco ricca di brani inediti o apparsi su lati B, split-single e compilation.
Smussati parzialmente i suoni urticanti che caratterizzavano le registrazioni precedenti, ma senza attenuarne la foga, il quartetto di scapestrati composto da Mark Arm, Steve Turner, Steve Lukin e Dan Peters diede alle stampe un LP favoloso che univa incedere punk, piglio garage, squarci di psichedelia e, ogni tanto, aromi quasi folk (ravvisabili nell’armonica a bocca di “Move Out” e di “Pokin’ Around”).
I pezzi, costruiti su pochi accordi, sono travolgenti e spesso estremamente melodici (“Good Enough”, “Into the Drink”, “Who You Drivin’ Now?”; l’impeto di “Thorn”). Riascoltandoli si apprezzano ancora una volta la compattezza del sound, le distorsioni lancinanti delle chitarre, gli assoli striduli e carichi di fuzz ‒marchio di fabbrica di Turner ‒ e la veemenza con cui Peters percuote la batteria (si veda, ad esempio, il suo stile tra il tribale e il marziale in “Let It Slide”).
Inflessioni psichedeliche affiorano in “Something So Clear”, col suo riff ipnotico e reiterato, “Don’t Fade IV” e soprattutto nella lenta e funerea “Check-Out Time”, con organo ed effetto straniante del tremolo della sei corde. E come non citare “Broken Hands”, poetica ballata venata di amarezza chiusa da un assolo che sfocia nel caos, uno dei vertici del repertorio di Arm e compagni?
Tra le composizioni “extra” offerte dalla ristampa, segnaliamo gli strumentali, più o meno variazioni sul tema dei due presenti nella scaletta orginale: “March to Fuzz”, “Fuzzbuster” e “March From Fuzz” (che, sfrondato del fuzz, diventa un vero e proprio pezzo surf); la collisione di punk e rock and roll in “Paperback Life”; la frenetica “You’re Gone”, col wah-wah dell’elettrica nel break; lo scherno con cui i Mudhoney deridevano il grunge e la scena di Seattle in “Overblown” (“Everybody loves our town/That's why I'm thinking lately/The time for leaving is now”); il divertissement cacofonico di “Flowers for Industry”.
Un disco eccellente, da mettersi in casa in questa nuova veste “espansa” e accattivante.
|