|
Per ragioni che non conosciamo, ultimamente Shannon Lay si è imposta all’attenzione di diverse testate specializzate (ad esempio, la rivista Uncut a novembre le ha dedicato ben cinque pagine).
L’occasione è l’uscita del nuovo album, che segue l’apprezzato (ma da noi maltrattato) “August”, pubblicato nel 2019.
L’accoglienza entusiastica riservata a “Geist” non è però fuori luogo, perché, bisogna ammetterlo: la Lay è riuscita a incidere un’opera fuori dal tempo, che non sfigurerebbe accanto ad alcuni classici del folk anglosassone.
Malgrado uno stile in alcuni momenti troppo lussureggiante, il fingerpicking ripetitivo, e le armonie vocali che avrebbero dovuto essere dosate in maniera più equilibrata, le composizioni pregevoli sono numerose.
Da ricordare l’evocativa, autunnale “Rare to Wake”, con contrabbasso e ricami di chitarra eletttrica che rimandano ai Pentangle; la dolcezza e la malinconia che caratterizzano “Sure” e “Shores” (quest’ultima, con uno scialbo assolo di Ty Segall celebrato in tante recensioni per motivi che ci sfuggono; probabilmente, da chi non conosce i prodigi compiuti dai compianti Bert Jansch e John Renbourn); la delicatezza dell’acustica “A Thread to Find”; le movenze della strumentale “July”, che infondono vivacità in una scaletta altrimenti monocorde.
E come non citare “Awaken and Allow”, quasi esclusivamente a cappella? Echi dell’intensità catturata su disco da artisti del calibro di Shirley Collins, Linda Thompson, Bridget St John, o June Tabor, in una composizione che potrebbe risalire a decenni fa, e che è sicuramente uno dei punti più alti dell’album.
Poco convincenti, invece, “Time's Arrow”, e la rilettura di “Late Night”, che anestetizza le stramberie di Syd Barrett per trasformarle in mitezze alla Nick Drake.
Come già detto, un po’ di vigore in più non avrebbe guastato, ma è indiscutibile che Geist sia un album bellissimo, il cui fascino sarà messo in risalto, e aumenterà, ascolto dopo ascolto
|