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La lunga carriera artistica e musicale dei Jethro Tull aveva conosciuto un lungo stop, anche soprattutto dal punto di vista delle nuove uscite discografiche.
Erano venti anni che Ian Anderson e la sua band non pubblicavano un disco. Ma si trattava di una pausa, non certo della fine. Lo dimostra la recente pubblicazione di questo “The Zealot Gene”, un disco eccellente, il classico “concept album” sulla scia del glorioso “Thick As A Brick” e di “A Passion Play”. Il nuovo lavoro ha avuto una genesi lunga e complessa: ci sono voluti infatti ben quattro anni per completare le registrazioni dell’album in sala di incisione. Questa volta Ian Anderson ha voluto fare le cose per bene, non c’è una virgola fuori posto: i dodici brani che compongono il disco hanno una struttura armonica quanto mai solida e felicemente ispirata e l’album si rivela in possesso di una coesione interna invidiabile.
Al fianco di Ian Anderson, flauto traverso e voce, troviamo Florian Ophale e Joe Parrish, alle chitarre elettriche, David Goodier, al basso, John O’Hara, alle tastiere e Scott Hammond, alla batteria. Brani come “Mrs Tibbets”, “Mine Is The Mountain”, “The Zealot Genie” e “Shoshana Sleeping” si rifanno gioiosamente al “progressive rock” della tradizione, quello dei primi anni Settanta. Si tratta di un vero e proprio “ritorno al passato”, fermamente voluto da Ian Anderson che ha firmato tutte le composizioni. Un disco visionario e ben cadenzato sul piano strettamente musicale, ricco di “groove” e di passaggi armonici emozionanti. L’album ha già raggiunto la vetta nelle classifiche inglesi e tale successo è meritato. Non è un disco “datato”, al contrario il prodotto finale supera qualsiasi aspettativa. Il flauto, l’armonica e la chitarra acustica di Ian Anderson fanno da “supervisor” in ogni composizione dal quelle più marcatamente hard rock, come “Barren Beth, Wild Desert John” al folk di “The Fisherman Of Ephesus”. Non mancano all’interno dell’album alcuni riferimenti biblici, ma non si tratta di un disco a carattere religioso.
Tali riferimenti costituiscono soltanto lo spunto narrativo per alcune canzoni, come nel caso di “The Betrayal Of Joshua Kynde”, ispirata alla storia di Giuda Iscariota, che tradì Gesù. In conclusione abbiamo a che fare con un disco che suona benissimo, il cui ascolto non vi deluderà affatto ma, al contrario, vi procurerà nuove emozioni.
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