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“E vedo, ben più di un ciclope, e vedo, anche se non ho le prove lo Stato che legifera sull’odio poi sull'arte, sull’intenzione. E tutto sarà un avvertimento su quel che è male, quel che non si fa; e non potrò più dirti "taci" o "ascolta"per rispetto della tua libertà.”
Così canta il cantautore Alfredo Marasti in “Notturno”, brano conclusivo del concept- album “Ultimo d’Annunzio”, appena uscito per La stanza Nascosta Records. E l’unico brano, insieme a “Fiume!” a contenere, in maniera esplicita, agganci- inten-zionalmente provocatori, con il momento storico attuale: le diatribe politico- culturali, i nodi socio-ideologici, irrisolti, tornano- se mai hanno smesso- a far male come vec-chie ferite. Le osserva, con sarcastico nichilismo, un D’Annunzio redivivo, che sen-tenzia in modo apocalittico: «è tornato il Novecento e vi ha spazzati via». Il cadavere del secolo scorso-insomma- continua, ingombrante, ad emanare i suoi miasmi mentre Marasti tratteggia un ritratto di un D’annunzio che vive di policromie semantiche, giustapposizioni, osservatori emotivi femminili differenti.
Citazionismo colto e una vena sorprendentemente inedita percorrono un’effigie com-plessa, dicotomica, volutamente per frammenti dell’ “amante delle belle donne, delle arti e del pericolo mortale, dell'assoluto e del superficiale, di vita letteraria e di vita carnale.” Dalla “Stanza del Mascheraio”- contenente la beffarda incisione indirizzata contro Mussolini, con buona pace della narrazione ufficiale, che qualificava D’Annunzio fede-le gregario del Duce- passando per “La Stanza della Musica” (regno della pianista Luisa Baccara) e per “La Stanza della Leda” (con il motto Genio et voluptati -al genio e al piacere- stampato sulla porta) fino a “La sala del Mappamondo”, Marasti prende per mano l’ascoltatore, accompagnandolo nella prigione dorata del Vate, in quel monumento-mausoleo che è stato, di volta in volta e spesso con sincronicità, harem e luogo di clausura.
Impossibile- e deleterio- sarebbe rinchiudere “Ultimo D’Annunzio” in un genere, so-speso- così com’è, a livello sonoro- tra archi classicheggianti di impronta novecente-sca e suggestioni prog, distorsioni grunge e riff di basso in controtempo, synth anni ottanta e fiati dagli echi seventies; a livello testuale si potrebbe forse definire un pa-stiche postmoderno, se non fosse che il gioco citazionale non si riduce qui a mero esercizio e non è disgiunto da una componente autoriale forte, intrisa di riflessione critica e acume.
Un plauso dunque a Marasti, per questo “Ultimo D’Annunzio”, capolavoro di profondi-tà e trasversalità dalla innegabile filiazione “battiatesca”, che spicca per la qualità del-la produzione artistica (in collaborazione con Salvatore Papotto) e per la sapiente mi-scela di rigore filologico e guizzo poetico, retrospettiva e prefigurazione.
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