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Dodici anni sono di per sé un lasso di tempo che nella vita umana possono racchiudere relazioni, luoghi, dolore, un’infinità di ricordi che il futuro terrà da conto sino alla fine della nostra esistenza.
In campo musicale tutto ciò non è che amplificato, laddove lo streaming, le playlist ed in generale una fruizione sempre più liquida ed evanescente, fanno sì che ogni canzone o album equivalga ad una piccola meteora che solca per una frazione di secondo il cielo notturno. Nati agli inizi degli anni 80, i Porcupine Tree erano formati agli albori unicamente da Steven Wilson e Malcolm Stocks. Era un divertissement per loro, in cui inventare retroscena di una musica che ancora non esisteva. Quando poi si ebbe l’opportunità di strumenti musicali e denaro, ecco che questa creatura nata quasi per gioco poté davvero cominciare a respirare, in concomitanza al successo in crescita dell’altra band che Steven aveva insieme all’amico Tim Bowness: i No-Man.
E così a partire dal secondo album, Up The Downstair, arrivarono quei musicisti che sarebbero poi rimasti in pianta stabile all’interno del gruppo, Richard Barbieri alle tastiere, Colin Edwin al basso e poco dopo Chris Maitland alla batteria, in seguito sostituito da Gavin Harrison a partire da quel settimo e seminale disco che è stato, ed è tutt’ora, In Absentia. Il resto, è storia ormai nota a chi ha voluto prestare ascolto. Dieci album, dal 1992 al 2009, in cui esplorare generi come il rock psichedelico e progressive sino a lambire con le ultime uscite lidi più strettamente attinenti al metal. Con The Incident, buon disco ma assai disomogeneo se confrontato con uscite come il già citato In Absentia o Fear Of A Blank Planet, il sipario si chiudeva in silenzio su questa formazione oramai divenuta di “culto” sulla bocca di innumerevoli ascoltatori.
Nessun proclama ufficiale di scioglimento, nulla. Ciascun membro ha proseguito con i propri progetti paralleli, con Wilson che ha costruito una carriera solista composta da ben sei album a suo nome, mentre il nome dei Porcupine Tree diveniva quel tema spinoso su cui divenire evasivo nel corso delle numerose interviste rilasciate alla stampa di settore. Sino alla svolta, potente e inattesa da tutti, con l’annuncio a novembre del 2021 di un nuovo album in arrivo a 12 anni di distanza da The Incident. Poco dopo ci penserà il primo singolo “Harridan” a rendere reale questa notizia: “Closure/Continuation”, undicesima uscita discografica a nome Porcupine Tree, avrebbe visto la luce il 24 giugno del 2022. Senza più Colin Edwin in formazione, Barbieri (tastiere), Harrison (batteria) e Wilson (voce, chitarre e basso) hanno realizzato sette brani camaleontici ed incisivi la cui gestazione è stata assai altalenante, essendo stati scritti in gran segreto nell’arco di un decennio con un ritrovato spirito collaborativo tra le diverse personalità ed influenze del trio.
Negli otto minuti dell’iniziale Harridan, pezzo che si apre su di un giro di basso suonato da Wilson e che prosegue suddividendo il proprio incedere in piccole “micro fasi”, c’è il manifesto emblematico dell’intero disco, il quale resta fedele al suono dell’ultima parte di carriera della formazione, senza però rinunciare a delle incursioni nell’elettronica e nella psichedelia (“When we bite the dust, We will hide our cuts from the world, When you're in the dirt, You don't show your hurt to the world” ). Vi è “Of The New Day”, ballad “classica” dalla struttura atipica in cui i tempi cambiano continuamente, “Rats Return” con il suo incedere frammentato, distorto e disturbato che racconta come in una liturgia 2.0 i lati oscuri del potere che indulge nei sogni e negli incubi della razza umana (“Leave your principles at the door, Spare me, Purge your guilt for the nameless hoards, Thrill me you clown..” ). Non mancano poi altri episodi come “Dignity”, in cui si descrive un piccolo spaccato sociale attraverso un brano splendido e malinconico, il quale a metà circa si apre in un interludio di chitarra che ha il sapore di dischi e decenni passati (“Lost boy, With the shreds of your shoes on your feet, And the schoolgirls call you a freak, Long gone, With all that you are in a bag, Watching you fumble, And a paper cup held in your hand, You have your pride, You're standing your own ground, Your dignity will never go” ).
“Herd Culling” è la paura, la rabbia, è il grido di “bugiardo, bugiardo!” alla coercizione che il lupo della civiltà imprime a chi vuole solo essere libero di vivere la vita seguendo ideali desueti, il tutto filtrato attraverso chitarre distorte e loop elettronici di fondo (”Son, go fetch the rifle now, I think there's something in the yard, I can see the herd is getting rattled, And the dogs are on their guard, Liar, liar…”) A seguire vi sono i due brani finali dell’edizione standard, “Walk The Plank” (“Somewhere else descends thе rain in western ways, Upon the еcho of the day, Just the ebbing of the day, Walk the plank, abandon ship, Take it slow, don't lose your grip, Walk the plank and jump out of the fraye”) e “Chimera’s Wrek” (“A coat of arms is all we are, The slow decay, a dying star, A sinkhole for the crawling of the hours” ) Il primo può ricordare inizialmente sembrare affine a ciò che Wilson ha realizzato in ambito solista, soprattutto con il più recente “The Future Bites”, ma poi ad un ascolto attento ci si accorge di come il pezzo si incastri alla perfezione non solo con il mood dell’intero disco, ma anche con quelli che sono stati episodi simili del passato discografico dei Porcupine Tree.
Il lavoro sopraffino di Richard Barbieri impreziosisce questa traccia ammaliante, sinestetica, che sembra quasi respirare ad ogni eco di tastiera e sintetizzatore su cui si poggia a seguire, emozionante, la voce di Steven sino ad un crescendo che va a perdersi tra le stelle. Nella traccia numero sette “Chimera’s Wreck”, la più lunga dell’intera tracklist con i suoi nove minuti e trentanove di durata, si esplora a tinte languide il lato più progressivo della formazione. Un inizio lento a levare di chitarra, la voce di Wilson che sopraggiunge in punta di piedi e la batteria di Harrison a tenere con lo stesso tenore il tempo, per poi crescere e ridiscendere di tenore. Si arricchisce gradualmente di elementi l’orizzonte sonoro, i cori divengono parte di una litania che poi si ferma all’improvviso e il ritmo si fa più frenetico. Nonostante non sia di per sé un concept album, “Closure/Continuation” ha una coda sonora in alcuni brani, un rivolo di note ed echi malinconici che va a morire lentamente sul finire del pezzo e che sembra “collegare” e tenere insieme i fili di un racconto più grande e coeso, non dissimile da un mondo parallelo in cui i grandi archetipi del mondo wilsoniano, come ad esempio lo sferragliare di un treno che si allontana, perdurano all’infinito con il proprio eco.
Sul finale è la sezione ritmica di Gavin a brillare, contorcendosi in un vortice serrato insieme alla chitarra elettrica, sino al sopraggiungere dell’ultimo colpo di bacchetta, sino al silenzio che chiude l’album. O meglio, come si diceva prima, alla sua versione “classica”. Nell’edizione deluxe su cd (in una confezione sobria ma elegante corredata da un libro d’immagini e testi di 60 pagine a cura di The Designers Republic, un disco extra con l’intero album strumentale ed un blu-ray con la versione stereo in alta risoluzione ed i mix 5.1 e Dolby Atmos) e vinile ma anche in quella sui servizi di streaming come Spotify, troviamo tre tracce che si aggiungono alla tracklist, portando così il disco ad un’ora e cinque minuti di durata per un totale di dieci canzoni. “Population Three” è un lungo esodo strumentale di quasi sette minuti in cui le chitarre inseguono le tastiere che a loro volta languiscono i rintocchi della batteria. “Never Have”, col suo piano in sottofondo ed il chorus arioso sarebbe stato un pezzo perfetto su uno qualsiasi dei primi tre dischi dei Blackfield (progetto parallelo in cui, almeno per i primi 3 album più il quinto, vi era una stretta collaborazione tra Steven Wilson e il musicista israeliano Aviv Geffen). Mentre invece, “Love In The Past Tense”, va a racchiudere un po' del periodo di mezzo della carriera porcupiniana, facendo tornare alla mente uscite come Lightbulb Sun e Stupid Dream. C’è voluto tanto e tanto è cambiato per arrivare all’uscita di questo album, per alcuni troppo, per altri troppo poco.
Eppure in questi dodici anni di apparente silenzio, sottotraccia la leggenda di questo gruppo dal nome singolare è cresciuta, alimentata dal passaparola di una nuova generazione di ascoltatori attenti ed appassionati. L’ambivalenza emotiva che il titolo di “Closure/Continuation” porta è marchiata a fuoco anche al di sotto della sua copertina, dove quell’albero, solitario tra tanti simili, si staglia su di un cielo autunnale in cui al contempo un timido sole fa capolino da dietro alcune nubi. Ma lo spirito c’è ancora, l’irruenza sonora e le pause soffuse, la voce delicata di Wilson, i testi che parlano dell’oggi e dell’essere umano che è visibile ma anche delle sue fragilità e delle sue ambizioni che scalpitano celate al di là della carne e delle ossa.
Che sia la fine o un nuovo inizio, grazie di tutta la musica Porcupine Tree.
TRACKLIST:
Harridan – 8:09 (Gavin Harrison, Steven Wilson) Of the New Day – 4:43 (Steven Wilson) Rats Return – 5:40 (Gavin Harrison, Steven Wilson) Dignity – 8:22 (Richard Barbieri, Steven Wilson) Herd Culling – 7:02 (Richard Barbieri, Gavin Harrison, Steven Wilson) Walk the Plank – 4:26 (Richard Barbieri, Steven Wilson) Chimera's Wreck – 9:40 (Gavin Harrison, Steven Wilson)
Tracce bonus nell'edizione deluxe digitale
Population Three – 6:51 (Gavin Harrison, Steven Wilson) Never Have – 5:07 (Steven Wilson) Love in the Past Tense – 5:49 (Gavin Harrison, Steven Wilson)
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