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Il tempo si è fermato per due anni abbondanti ma sono bastate poche note acustiche e un colpo di defibrillatore, in mano alla sapiente sezione ritmica, per riavviarne la pulsazione cosmica.
Come per i tossici dopo un ciclo di rehab, un solo attimo d'indecisione può rendere la tentazione irrefrenabile. Ci siamo ricaduti, dentro fino alle orecchie e anche più su.
I Dead Cat in a Bag si allontanano dalla ristagnante palude del panorama musicale, non solo italiano, con quello che sanno fare meglio, creare nodi alla gola ben stretti dal basso pulsante di Gianni Maroccolo, capaci di far dimenticare anche i più basici riflessi incondizionati come respirare (The Cat Is Dead). La voce di Swanz è un grugnito, roco e sporco, torreggia sul sound ammaliante di questa creatura atipica che, da anni, si muove snella e in punta di piedi evitando le trappole della ripetitività asfittica, striscia ma non per rialzarsi dopo un tonfo, tutt'altro. Soffrono come tutti, ma lo fanno meglio, senza piagnistei né lamentele (From Here). Non è dato sapere come ci riescano, anche se lo sappiamo benissimo, muovendosi fra luce e ombra che separano il giorno dalla notte attraverso arrangiamenti di fine grana cesellati dal quartetto d'archi. Aprono le danze da soli ma estendendo l'invito per unirvi alle movenze sinuose di Between Day And Night.
Si potrebbe scivolare facilmente nella categorizzazione di musica cinematica, sarebbe un'ovvietà bieca e offensiva perchè lo sono sempre stati, a loro modo certo, forti di una componente imparentata con Screaming Jay Hawkins, amplificata dalle teatrali linee vocali e quel banjo come un carillon impietoso, pronto a scandire i secondi di una vita che se si spegne con un ultimo doloroso rantolo (Lost Friends). Sfruttano giri armonici marpioni resi più accattivanti dalla ritmica spezzettata e trascinante di Wayfrying Stranger (Johnny Cash), sfigurata dalle note lancinanti delle chitarre fino al chorus amabile tanto quanto indisponente per il suo intento paraculo contro cui comunque non si può muovere nessuna accusa. É blues intestino in Duet For Nothing e atmosfere tzigane in Fiddler, The Skip is Sinking, crooning a opera di Liam McKahey (CousetauX) in Lost Friends fino alla delicata Hunter’s Lullaby (Leonard Cohen).
Facile immaginarseli sul palco mentre si producono in tragicomici teatrini, come moderni giullari di corte la cui vita è salva per l'eleganza di un disco curato nei dettagli, i dettagli sono tutto, come il sale che esalta il gusto di ogni portata, di tutte le storie narrate a parole o in musica.
Sempre dediti alla ricerca di un suono ben preciso che gli rimbomba nella mente o di un accordo che credono di aver sentito in un sogno agitato da cui destarsi al più presto. Senza dubbio un grande ritorno.
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