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Nuovo album per Beth Orton, cantautrice folk inglese, molto nota però ed apprezzata anche negli Stati Uniti. Dotata di uno stile molto originale che le ha permesso di coniugare negli anni musica folk ed elettronica, la Orton era sparita dai radar da almeno sei anni.
Adesso è uscito “Weather Alive”, il suo atteso nuovo album e devo confessare che questo disco ci ha messo un attimo a conquistarmi nel profondo: è stato sufficiente un primo ascolto. Beth Orton conduce una vita piuttosto solitaria, a Londra in una casa che è diventata anche il suo studio di registrazione e dove si è ritirata con il marito e con i suoi due figli, ai quali si è dedicata interamente, in particolare durante la pandemia. Non aspettatevi la Orton di “Central Reservation”: no, Beth ha cambiato registro, anche se non di molto. Questo “Weather Alive” è ancora più riflessivo ed intimista, un album pacato, ma ricco di contenuti e di ottime soluzioni armoniche. La solita voce rauca, impastata che appare fragile, lontana e sognante, ma questa volta non è così. Lei è ben presente a se stessa.
Per la prima volta ha prodotto il disco interamente da sola, ma si è circondata di collaboratori molto validi come Tom Skinner, il batterista degli Smile di Thom Yorke e dei Sons Of Kemet, come Alabaster de Plume, sassofonista e poeta, come Tom Herbert, degli Invisible, come il polistrumentista Shahzad Ismaily e ha messo a punto delle canzoni a dir poco straordinarie come “Fractals”, morbidamente “funky”, “Haunted satellite”, con quel sassofono sempre in primo piano, e come “Weather Alive”, dalla pregevole struttura melodica. Ci sono inoltre brani arrangiati divinamente come “Friday Night” e la dolorosa “Forever Young”, che sono poi i due nuovi singoli tratti dal disco. Ma vi devo dire che il pezzo che mi ha toccato più degli altri si intitola “Arms Around A Memory”, una “slow ballad” talmente bella da far venire i brividi a chi ascolta.
Sia i singoli che l’album sono dedicati alla figura dei produttori Andrew Weatherall e Hal Willner, scomparsi di recente. Un disco molto personale, molto sentito, in cui Beth Orton non ha paura di mettere a nudo le sue ferite. Un album che significa presa di coscienza e che diventa al tempo stesso la cura, il rimedio per quelle situazioni che la Orton ha confessato di aver vissuto. Da ascoltare.
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