Otto mesi prima, il 13 gennaio 2022 esce il primo, Won’t Stand Down, già preannunciato a Natale sui social del leader Matt Bellamy. Non è facile distinguersi oggi nel panorama musicale attuale, e ancora meno se sei una band come i Muse, diventata globale ormai, accontentare i fan di vecchia data che vorrebbero canzoni scarne e chitarre ruvide, e i fan di nuova generazione, abituati a suoni più leggeri e orecchiabili, e soprattutto, scalare le classifiche senza risultare banali o già sentiti. Una bella sfida. Avrebbero potuto rilasciare un Best Of, a questo punto della loro carriera e prendere largamente consensi, ma Matt Bellamy non ci sta. Così, separati “in casa” dal lockdown e anche dall’Oceano Atlantico, infatti Bellamy (voce e chitarra) e Howard (batteria) si trovavano negli USA e Wolstenholme (basso e cori) in UK, hanno iniziato a lavorare separatamente. Il risultato un album inciso ad L.A. e poi, nel 2021, la reunion per completare le registrazioni agli Abbey Studios di Londra. Ma che cosa avranno ancora da dire i Muse in un momento storico così difficile? Che ruolo deve avere la musica? Per il trio inglese la musica ha sempre voluto rappresentare il riflesso della società, l’urlo delle persone, l’intima riflessione del musicista che scrive il pezzo rispetto i problemi del mondo. Ci hanno abituato a scenari catastrofici, droni, controllo mentale, il tutto ben posizionato su pezzi che hanno fatto la storia del rock contemporaneo, e anche per il loro nono lavoro di studio, hanno mantenuto la stessa linea di pensiero. “Will of the People” è un album più che mai attuale. Che se riascoltato fra vent’anni ci rimanderà con immediatezza a questo periodo storico. La pandemia, una nuova guerra in Europa, proteste e rivolte, incendi e disastri naturali, ovvero un mondo altamente instabile, con una politica incerta e allo stesso modo autoritaria. Dal punto di vista musicale è un album intenso, che si ascolta in un fiato dall’inizio alla fine, ben equilibrato e amalgamato. Capace di unire orecchie e gusti diversi, che vanno dal rock, al metal, al pianoforte, all’elettronica; un album che suona classico ma con note estremamente nuove e fresche. Un disco che attinge da tutta la carriera dei Muse e regala una esperienza d’ascolto sempre molto piacevole, a cavallo fra passato e futuro, donando al pubblico alcune vere e proprie bombe sonore e allo stesso ballad indimenticabili. Insomma, il nono lavoro di studio dei Muse suona potente e grandioso come se fosse una raccolta delle loro migliori canzoni, un Best of. Ma andiamo con ordine.
L’album si apre con Will of the People, un glam rock accattivante e dalla ritmica piacevole, che risulta dopo un po’ di ascolti martellante, con il ritornello che rimane in testa. Scelta anche per aprire i nuovi concerti, con Will of the People l’album inizia con il botto, e presenta il progetto con una sorta di positività, che richiama le speranze delle persone. Segue Compliance, uscito come singolo il 17 marzo, la canzone si muove su un ritmo pop che sfocia in un loop ridondante e accompagnato da un basso ben delineato. Il testo inquadra molta della politica di questi tempi, ovvero demagogia e bugie ben montate sul marketing, a cui la gente si affida. Grande ritorno del pianoforte, Liberation, la terza traccia dell’album, ispirata dalle proteste dei Black Lives Matter, rimanda direttamente a United State of Eurasia (“The Resistance”, 2009), e a quella “queenologia” dei cori tanto cara al Bellamy. Un brano godibile (perché quando Matt Bellamy si mette al pianoforte è pur sempre un capo) ma certamente un po’ sentito. Finalmente si arriva a Won’t Stand Down, in cui si ritrova la linea rock dei Muse più crudi che sfociano, in questo caso, anche nell’heavy metal, strizzando l’occhio all’elettronica. Un testo che non te la manda di certo a dire, adattabile sia per una relazione chiusa che per la massa che si ribella al Potere.
Con Ghost ci si imbatte in una delle grandi ballad di questo album. La sonorità del piano rimandano ad “Absolution”, senza la parte sinfonica, in questo pezzo sono in primo piano solo voce e pianoforte. Notevole il testo, che esprime solitudine, lontananza, malinconia, incertezza, e esprime sensazioni che ognuno di noi ha vissuto durante la pandemia. (senza rinunciare al complottismo, al verso Lest we forget the great Reset). Ritorna ancora il tema del lockdown con la sesta traccia, You make me feel like it’s Halloween, che a dispetto del testo che racconta di una violenza domestica, il brano sembra essere uscito direttamente dagli anni ‘80. Si rifà al pop dei sintetizzatori, un elettro rock con una pioggia di percussioni e un organo di chiesa per dare il tocco un poco gotico. Certamente la canzone meno amalgamata con il mood dell’album; i Muse al pop ci hanno abituato da tempo, ma il pezzo rimane insolito e non si può nemmeno associare al pop di Simulation Theory perché è molto meno ruvido. You make me feel like it’s Halloween poteva essere la canzone ideale per la colonna sonora di Stranger Things. Killed or be killed è di certo uno dei pezzi hard rock (che strizza l’occhio al prog metal) meglio riusciti dei Muse, non solo in quest’album, ma della loro intera carriera. Da subito accolto con calore dai fedelissimi, la canzone ricorda il rock di Drones ma è crudo come i Muse ci avevano abituato ai loro esordi e suona sinfonico come solo loro sanno fare. Immediatamente inserito in scaletta nei live, in Killed or be Killed si riconoscono tutte le sfumature dei Muse, e mi sento sicura di dire che a lungo andare questo album sarà ricordato nel tempo soprattutto per questo pezzo. Altra chicca dello stesso peso della precedente, è la super ballad Verona, in cui Bellamy da spettacolo della sua sensibilità e romanticismo. Una dolce melodia depositata su una texture di suoni elettronici che la fa suonare nuovissima eppure senza tempo. Le ultime due tracce che chiudono l’album hanno quel pizzico di assurdità che i Muse ci avevano regalato con “Knights of Cydonia”. La prima, Euphoria inizia quasi come una canzone dance che poi si trasforma nel più classico dei pezzi rock dei Muse, mantenendo un ritmo serrato che disorienta e affascina. La potentissima traccia finale, We Are Fucking Fucked è la massima espressione dei Muse quando decidono di fare la loro musica a prescindere. È la prima volta che decidono di chiudere un album con un testo che parla di negatività e distruzione (Il titolo significa “Siamo tutti fottuti”) e con un titolo del genere la canzone poteva risultare una banalità oppure pigiare sull’acceleratore fino fondo corsa. E così è stato. Il risultato un brano che suona assurdo come una B-side, ma che assesta colpi grandiosi e pazzeschi e regala una chiusura epica all’album. Ancora una volta, con “Will of The People”, i Muse hanno dimostrato di annoverarsi fra le band più interessanti dell’ultimo ventennio. Non ci resta che aspettare il tour, che toccherà l’Italia il 18 Luglio2023 allo stadio Olimpico di Roma e il 22 luglio 2023 a San Siro a Milano. Nel frattempo, hanno regalato ai fan italiani un’intima data all’Alcatraz (MI), solo tremila posti, il prossimo 26 Ottobre 2022.
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