Terzo album per il collettivo musicale franco-algerino, noto come Acid Arab. Il disco si intitola “Trois” (come dargli torto?) e - pur mantenendo lo stesso caratteristico approccio musicale, un mix fatto di nenie arabe tradizionale, di elettronica e di “dance music” - denota una evidente crescita sul piano compositivo da parte della band.
La “line up” attuale è composta da cinque musicisti: il portoghese Hervé Carvalho e il russo Guido Minisky (naturalizzati francesi : i due fondatori del gruppo), Pierre-Yves Casanova, Nicolas Borne e Kenzi Bourras ma - in questa occasione - la band ha potuto contare sulla presenza di otto “vocalist”, tutti provenienti dall’area del Mediterraneo del Sud: Wael Alkak, Cem Yıldız, Ghizlane Melih, Khnafer Lazhar, Sofiane Saïdi, Fella Soltana e Cheb Halim. Molto conosciuti in Spagna, in Francia e in Turchia, gli Acid Arab sono fra i più noti rappresentanti di quella “club culture” che impera fra le giovani generazioni e i loro pezzi non faticano a trovare spazio nelle scalette dei “dee jay” di tutto il mondo.
“Trois” si compone di dieci brani originali, a cominciare da “Leila” che vede la partecipazione alla voce di Sofiane Said, massimo esponente del “rai” algerino, per passare poi alla fantastica “Ya Mahla”, tutta da ballare, che vede il contributo di Wael Alkak , musicista siriano che vive a Parigi. Molto gustose anche “Halim Guelil”, “Habaytak” e “Rachid Trip”, quest’ultimo brano prevede l’inserimento di un “sample” della voce del grande e compianto Rachid Taha, musicista algerino residente a Parigi, morto a causa di un infarto nel 2018.
La musica folk nord africana che incontra la “dance” elettronica europea: una scommessa vinta , ogni volta di più, grazie ad accorgimenti indovinati che danno un maggiore sapore all’evoluzione musicale degli Acid Arab. Un disco volutamente post-pandemico, che ritrova gioia nella contaminazione di suoni che vanno dal “rai” alla “gasba”, passando per la “dabke” siriana e per la musica turca. Una pulsione positiva, che riavvicina popoli e culture diverse, che getta un ponte (in un momento in cui la cosa è estremamente necessaria) fra tradizioni orientali e occidentali. La definiscono anche “techno world music”, un termine che identifica piuttosto bene il prodotto finale, Ma all’origine di tutto questo c’è l’intuizione felice di voler accostare lo stato di “trance” generato dalle nenie arabe con l’ipnosi procurata dalla ripetitività ossessiva della musica “house” occidentale.
Da ascoltare ad alto volume.
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