C’è stato un momento, esattamente prima che la pandemia ci rendesse essere umani peggiori, in cui fan dei Baustelle hanno temuto seriamente per le sorti della band dopo l’annuncio da parte di Francesco Bianconi di voler dar sfogo alle proprie ambizioni artistiche, da solista sì ma non forzatamente in solitaria.
E in un nefasto periodo socioculturale in cui “niente dura per sempre, nemmeno la musica“, il rischio è stato quantomai concreto. Esplicate le necessità professionali del frontman con lo splendido “Forever” e un godibile terzo romanzo “Atlante delle case maledette”, coadiuvato dalla seconda avventura solista di Rachele Bastreghi, l’eclettica “Psychodonna”, i timori si sono però disciolti come benzodiazepine in un bicchiere con l’annuncio di “Elvis”. Una fumata bianca che di fatto ha allontanato definitivamente il pessimismo cosmico che aleggiava sui cultori dei Baustelle e che gravava sulle spalle del Belpaese musicale, perché andare avanti a dosi di tormentoni balneari o featuring improbabili sarebbe stata punizione assai infausta per chi al “rumore” dei tanti preferisce la “musica” di pochi.
Perché la nuova fatica del trio toscano, sebbene non sia la più brillante di tutte in venti e passa anni di onorata carriera, resta comunque ancora di salvezza a cui aggrapparsi per non sprofondare in quell’abisso a cui Bianconi trovava la forza di ribellarsi nella sua opera prima solista. Ma Elvis, nono album in studio del terzetto di Montepulciano, è il classico disco multistrato che necessita di più ascolti per carpirne le tante sfaccettature, da valutare poi con sommaria calma e a bocce ferme per non essere indotti in errore o in tentazione. Il primo singolo “Contro il mondo” è infatti un depistaggio in piena regola, non particolarmente ammiccante con la svolta rock paventata anche dal nome di battesimo scelto per il disco, ma che conduce l’ascoltatore verso le reminiscenze pop dei due precedenti album di un passato nemmeno troppo lontano; del resto, chi al suo interno vi ha trovato qualcosa di “Veronica, n.2” non è andato fuori strada. Infatti, si parla di secondi, terzi e quarti ascolti, perché indagare nell’anima Elvis come il tenente Colombo di “Amen” ammaestra l’orecchio anche quando sfacciatamente i Baustelle appaiono dei gran paraculi.
È il caso dell’ennesimo omaggio al capoluogo lombardo perpetrato con “Milano è la metafora dell’amore”, dove la città-feticcio di Bianconi diviene protagonista di filastrocca infarcita di luoghi d’interesse, stili di vita variegati e citazioni auliche che a lungo andare ti si stampano in testa. Riaffiora dunque lo stile baustelliano di sempre, avvolto però da un sound stavolta più rockeggiante con potenti schitarrate e letterali squilli di tromba che aggiungono brio a un nuovo, decadente-ma-intrigante affresco contemporaneo della metropoli milanese.
“Jackie” si va invece ad accomodare nel grande salottino al femminile facendo compagnia alle varie “Betty, “Amanda Lear”, Virginia, Elisa e via discorrendo, nonostante la lei dell’omonimo brano sia in realtà un lui che si traveste da drag queen per dispensare amore amaro senza amare. Ma a differenza del primo atto de “L’amore e la violenza” in cui i Baustelle profetivazzano a modo loro la Brexit e l’inettitudine del genere umano, in Elvis l’attualità e le esperienze personali diventano risorse da adoperare per ricamare testi che, pur senza rinunciare al forte concentrato di sessualità, puntano i riflettori su eventi come il confitto in Ucraina o la mai celata infatuazione di Bianconi per la Città degli Angeli.
“Los Angeles” è quanto appena detto e non solo, con quel ritornello da rock ‘n’ roll old school dove l’essere di vecchia data è anche un sound generale che rimanda un po’ nostalgicamente agli albori del trio toscano. Eppure, i momenti migliori del disco esulano dalle solite tematiche affrontante con un rinnovato tappeto sonoro e coincidono con la ritrovata complicità tra Rachele e Francesco, il cui trait d'union vocale in “La nostra vita” genera una ballad romantica di rara bellezza. Ma altrettanto gentile, come una carezza in pieno viso, è la struggente “Cuore” che nello sposare sonorità più acustiche e classiche va a nozze con l’inconfondibile voce regina della Bastreghi.
Anche se non si tratta di un concept album dalla prima all’ultima traccia, Elvis denota quella che potrebbe essere vista come una ritrovata spiritualità ateistica da parte dei tre musicisti. E non può essere di certo una casualità visto che i molteplici riferimenti a croci, a Gesù Cristo (Superstar) e altri dogmi della cristianità fanno capolino un po’ ovunque, andando persino a scomodare l’altissimo “Regno dei cieli” dove tra sacro e profano i Baustelle riescono a far convivere con un certo equilibrio atti impuri e messe cantate. Una stridente antitesi già portata alla luce in “Nessuno”, con la grande differenza che questa volta è un gioioso coro gospel a chiudere la pratica tra sesso e religione. Al termine del quarto o quinto ascolto, cos’ha dirci lo spirito reincarnato dell’Elvis ormai agli sgoccioli della sua assurda esistenza se non che il rock and roll può anche essere creativo, sperimentale dal punto di vista delle sonorità e che è possibile affrontarlo anche con tanta ricercatezza? Ed è così che per testi e musica dei Baustelle rivive la versione miserabilmente umana del Re, sebbene il fabbisogno di rinnovamento voluto da Francesco Bianconi, Bastreghi e Brasini porti l’ascoltatore a misurarsi con momenti musicali già battuti e altri inediti che concordano con la classica cifra stilistica del gruppo.
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