A sette anni di distanza da “The Hope Six Demolition Project” P.J. Harvey torna finalmente a pubblicare un disco, il suo decimo album in studio.
Il nuovo lavoro si intitola “I Inside The Old Year Dying” e vi diciamo subito che abbiamo a che fare con un’opera piuttosto oscura, viscerale e di certo complessa. La cosa può sembrare inattesa, ma solo a quanti si sono persi gli ultimi sviluppi della carriera artistica di PJ Harvey che proprio l’estate scorsa aveva pubblicato un libro intitolato “Orlam”, una sorta di romanzo in versi che racconta la crescita di Ira-Abel Rawles, giovane ragazza del Dorset. Il testo, quanto mai misterioso ed enigmatico, risulta ancora più difficile perché viene scritto nel dialetto locale. Un racconto autobiografico? Si nasconde proprio lei, Polly Jean - che nel Dorset è nata 53 anni fa - dietro il passaggio drammatico dall’infanzia all’adolescenza che viene narrato nel libro? Quaranta minuti di musica che va ben oltre l’“indie rock” che ha caratterizzato tutta la sua attività musicale, una immersione totale e inquietante in un folk acustico, che talvolta attinge dal blues, in altre occasioni dall’elettronica.
La straordinaria voce di PJ Harvey riesce a dare un insieme a tutto questo, a modellare le dodici poesie tratte da “Orlam” e a trasformarle in altrettante canzoni. Brani carichi di atmosfera come “Prayer At The Gate”, “Autum Term”, “All Souls”, “Seem An I”, “A Child’s Question: August” , “A Noiseless Noise” e la bellissima “I Inside The Old Year Dying” , composizioni che presentano strutture armoniche scarne e minimali, poco riconducibili al rock universalmente inteso. L’album - che è stato prodotto dalla stessa Polly Jean, insieme a Flood e a John Parish - presenta uno stile musicale mutevole, volutamente non definiti, in cui si alternano chitarre acustiche, eredità folk-blues, reminiscenze punk, spunti di elettronica e “field recordings” come le grida di bambini che giocano, il pianto degli agnelli, lo scorrere di un fiume oppure il ronzio dei mosconi del Dorset, che chiude l’ultima traccia del disco.
Non mancano le citazioni letterarie, da John Keats a S. T. Coleridge fino ad arrivare a William Shakespeare , ma poi - un po' a sorpresa - ascoltiamo su “Lwonesome Tonight” ad un tributo al re del rock and roll, a Elvis Presley e quel “love me tender / tender love ” viene ripetuto in diversi momenti del disco , come fosse un mantra, delicato e poetico, che dà forza ulteriore al significato del testo. Non avvicinatevi all’ascolto di questo album con superficialità, perché verreste subito respinti. Date a voi stessi tempo e attenzione, seguite i testi e assumete un atteggiamento contemplativo. Se riuscirete a fare tutto questo, scoprirete che avete fatto la conoscenza di un disco meraviglioso, un’opera d’arte che sicuramente vede in “Let England Shake”, lo straordinario album del 2011, il suo punto di partenza, ma che conosce qui un approdo diverso, quasi fosse la conclusione di un viaggio iniziato tanti anni fa e che ci regala oggi un’artista finalmente libera da formule e da etichette di generi musicali diversi, capace di esprimere soltanto se stessa, intimamente, con delicatezza ma anche con fragore, come quel “rumore quieto” di cui canta nel disco.
Una fiaba moderna, visionaria e potente, un grande album al cui fascino non riuscirete a sottrarvi.
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