Sono dischi questi impossibili da fotografare… sicuramente in poche righe di una recensione che in fondo, con un disco come “Circles”, dimostra sfacciatamente quanto si è piccoli di fronte al mondo culturale che regna alle spalle di ogni singola scelta di stile, di ogni singola nota o immagine a contorno. Ed è da piccoli uomini che ci avviciniamo ad opere così estete ricche di storia, di radici, di tradizioni, ma anche di visioni future, giocando - per certi versi - con una macchina del tempo circolare… la navigazione non è selettiva ma ricorsiva, si torna ma come dentro una sorta di spirale, perché ad ogni giorno ognuno di noi cambia, arricchito o impoverito che sia. Già la copertina tradisce un binomio interessante: la perfezione di un cerchio, espressione alta della natura, e il cemento industriale, emblema di distruzione più che di evoluzione. Ma i piani di lettura sono molteplici come accade ad ogni ascolto che faccio di questo disco. La Classica Orchestra Afrobeat di Marco Zanotti questa volta dedica appunto un intero lavoro al ritorno dell’uomo a se stesso, della sconfitta industriale approdata ad un futuro distopico in cui ogni cosa ha perduto, l’evoluzione, il benessere e forse anche l’umanità. Ed è da qui che si riparte, si torna all’essenza del rituale… “Circles” lo trovo un disco ricco di ritualità, di sacramenti sonori, di spiritualità e preghiera. Il risveglio - se così posso figurarmi la partenza del disco - con “L’origine del mondo” (arricchito dal video ufficiale foriero di riconoscimenti di critica e pubblico), brano che ha i toni ariosi e colorati di un buon mattino. Sembra quasi sia liberatoria questa sconfitta, sembra quasi sia un successo l’aver trovata questa nuova possibilità di esistenza. Ripartire da zero significa anche non rifare, si spera, gli stessi errori. Ed è così che il brano si evolve a festa (parola che ritroveremo a lungo nel disco) dentro scale maggiori e percussioni che poi - simbolo ed elemento primigenio della spiritualità - ritroveremo in chiusa del disco. Circolarità anche in questo. La rottura si rende indispensabile, il cemento non pare sconfitto e l’industrializzazione ancora si vanta di monoliti e memorie. “But First”, brano già pubblicato nel 2014 nel disco “Seven songs for a disaster”, ci ricorda del cemento, di chi siamo stati, da dove veniamo. La lotta qui è con noi stessi e non con le nostre creature. Il finissimo retrogusto di un poliziesco anni ’70 condisce e indora una pillola ancora troppo amara… È tempo di ascoltare “Ka munu munu”, il singolo di cui aspetto con ansia il video anche per ritrovare gli amici del campo Mutoid ma anche per soddisfare la curiosità di sapere quale immagine avranno dato a questo tutto che gira. Splendida la voce di Rokia Traoré che firma l’unico parte vocale del disco. L’Africa ma anche tutto il mondo altro è presente sotto le nostre unghie. Il disco scorre così e non voglio svelarlo tutto… scorre dentro citazioni letterarie, momenti di storia vissuta in passato, tra guerre e discriminazioni… fermo la discesa su “Penelope” perché il suono inedito della C.O.A. qui pennella un quadro di sensazioni a-temporali, dove un combo d’archi si fa ostinato e celebra l’ansia del divenire che mai si sviluppa ma sempre resta incastrato. E fermo la discesa su “Debra Libanos 2037” dove anche qui, tra dispotiche visioni di domani che sembrano ieri e ispirati da vicende reali in Etiopia a fine anni ’30 - parliamo del massacro del monastero di Debra Libanos - si sviluppa un brano che nel suo modo di frantumare quella sospensione quasi ancestrale si contrappone la festa e la risurrezione…
“Circles” ovviamente è una quantità di cose oltre queste pagliuzze che ho saputo raccontarvi. Il suono come la narrazione davvero si muove su scenari lontani da ogni abitudine e da ogni previsione. Ricerca il passato, sembra non contemplare il futuro se non come passaggio di orbita. È un vinile da decantare piano… poco per volta… sarà circolare, quindi infinta, anche la maturazione che avremo nei suoi confronti.
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