Per i collezionisti che si fossero fatti sfuggire la ristampa del terzo album dei Nirvana uscita dieci anni fa è stata messa in commercio, come prevedibile, una nuova edizione che ne celebra il trentennale, con contenuti differenti, pubblicata anche stavolta in più versioni.
Ci occupiamo di quella dal prezzo abbordabile, in doppio Cd, e siamo subito presi dallo sconforto: il booklet di venti pagine a cui si riferisce lo sticker sulla copertina contiene foto probabilmente inedite, come anticipato dalla confezione, ma i testi di soli tre brani e nessuna informazione (lavorazione, retroscena, commenti), né un breve saggio critico sul disco che ci si aspetterebbe in simili occasioni.
L’esca per l’acquirente ‒ che, se già possiede l’Lp o il CD del 1993, sarà infastidito dall’odierna esclusione di tutti gli altri testi a loro corredo ‒ non è tanto la rimasterizzazione di Bob Weston, quanto la selezione di quattordici pezzi catturati dal vivo durante il tour di promozione tra il 1993 e il 1994 (quattro registrati al Palaghiaccio di Marino, in provincia di Roma, qui indicati genericamente come “Live in Rome”).
Superfluo soffermarsi sui particolari di “In Utero”, opera sottoposta ad analisi articolate e minuziose nel corso degli anni, data la vastissima celebrità su scala mondiale raggiunta dai suoi artefici nella prima metà degli anni Novanta.
Innegabile, comunque, la sua eterogeneità basata sull’alternanza di composizioni melodiche e ritornelli non banali che si inchiodano nella testa (“Serve the Servants”, “Heart Shaped Box”, “Rape Me”, “Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle”), e di episodi più dissonanti e spigolosi (“Scentless Apprentice”, “Milk It”, “Radio Friendly Unit Shifter”) che rifuggivano l’orecchiabilità accattivante del precedente “Nevermind” e si ricollegavano con quelli più cupi e torbidi dell’esordio “Bleach”.
A parlare con franchezza, nei suoi quarantadue minuti scarsi, “In Utero” offriva anche qualche riempitivo ‒ “Very Ape” poteva essere un pezzo dei Mudhoney sottotono ‒ e formule già adottate (per non dire della sequenza di accordi in “Dumb”, uguale a quella di “Smells Like Teen Spirit”); però, pure canzoni che nelle interpretazioni dell’“Unplugged In New York” sarebbero diventate piccoli classici di fine millennio (“Pennyroyal Tea” e “All Apologies”). Un commento sulle performance dal vivo? Routinarie, ogni tanto con le chitarre scordate. Nei casi migliori, fotocopie delle versioni in studio. Ci sono trasporto, intensità, ma non ci si entusiasma. E ascoltare Kurt Cobain che quasi rantola durante la “Pennyroyal Tea” eseguita al Great Western Forum di Los Angeles il 30 dicembre 1993 procura dolore; aveva pochi mesi di vita davanti a sé, ma qui, come in altri momenti delle esibizioni, sembra che qualcosa si sia già spento.
Per i super fan, le edizioni Super Deluxe in compact disc o in LP racchiudono ammennicoli e concerti completi. Messe in vendita a cifre inavvicinabili, potrebbero essere spacciate per oggetti preziosi di devozione per la pratica del culto dei Nirvana; la sensazione che si stia raschiando ulteriormente il fondo del barile è tuttavia fortissima
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