Silvia Conti ci ha preso gusto a venir fuori da questa “notte che si snocciola” attorno alla musica italiana… se mi si concede il lusso di parafrasare le prime righe di “Lucciola”, il brano che apre questo disco. Insomma: da quel disco del 2017 con cui interrompeva ufficialmente il suo silenzio discografico - parliamo di “A piedi nudi (Psichedeliche ipnotiche nudità)” uscito per la RadiciMusic Records - di acqua sotto i ponti ne è passata… non troppa ma quanto basta. Un primo vagito decisamente blues con il singolo “L’incrocio del diavolo”, finito a vivere solitario nella rete. La prematura scomparsa di Erriquez della Bandabardò, suo grandissimo amico di vita, ha dato i natali ad una scrittura dal titolo “Il filo d’argento” che invece, questa volta, ha seminato il futuro di cui parliamo oggi. Ho ascoltato da vicino questo nuovo disco dal titolo “Ho un piano B” sempre firmato dall’allegra compagnia della RadiciMusic di Aldo Coppola Neri, con un Bob Mangione in grande spolvero a dirigere l’orchestra, le chitarre e gli arrangiamenti, un Gianfilippo Boni ai comandi di regia (che tra l’altro firma il brano “Van Gogh”) e poi una schiera di musici e turnisti di spessore, nuove comparse e antichi ritrovi sicuri. “Lucciola” apre le danze e il rock americano subito mette in chiaro le regole: la canzone italiana sposa a pieno le grandi routes a stelle e strisce anche facendo ricorso a chitarre elettriche sporche dal suono che richiama tanto quella precisa letteratura classica. E subito mi metto in cerca degli intenti: disco romantico? Disco politico? Disco sociale? Qui la donna è il centro. Qui la violenza è il centro. “Lucciola” è il singolo del nuovo suono di Silvia Conti.
“Moltitudini”: sarà la mia illusione romantica ma qui sembra di ritrovarmi dentro l’America dei Procol Harum degli anni ’70 o comunque tutto quel sabbioso scenario rock d’autore di quel tempo… se non fosse che la voce qui richiama le melodie dannate del vero blues di Nada e la scrittura invece mi trasporta da quella Mina dei tempi d’oro. Ancora do sfogo alla mia vena romantica che si lo confesso: sarà il centro di questa mia lettura. La Paisley Underground fa capolino dentro la ciclica monotonia (mai noiosa attenzione) di un pezzo davvero interessante: “L’uomo della montagna” dura quasi 9 minuti. Un azzardo, un coraggio, un modo di ostentare la totale indipendenza dai cliché. Il suono gioca ed il gioco diviene un mantra da ripetere a se stessi. Ciclica… non perde la presa mai. Che bel “rumore” rock nello sviluppo di “Farfalla”. Ancora la violenza ed il bullismo, è forse questo il momento più italiano del disco dove impera quel certo modo di cantare la voce. Bob Mangione qui ha fatto davvero un lavoro pregiato su chitarre elettriche ed acustiche…
Passo alla pesa “Settembre”, una bellissima introduzione post rock, sospesa, bello il suono di basso che coccola e non sporca, belle quelle sfumature di phaser (se non erro) e questo ricamo che anticipa la tempesta che un poco mi riporta a quella “Vivere il mio tempo” di Piero Pelù… con tutte le virgolette del caso, non vorrei macchiare troppo di pop questo brano. E poi esplode e qui le chitarre elettriche di nuovo fanno la differenza nelle lunghe code strumentali, tra i tremoli floydiani alla ruggine dei REM prima maniera Warner… E diviene anche un mantra (questa volta melodicamente parlando) la scrittura di “Inverno 1944 (Mačkatica)” brano che si lega a doppio filo al libro del padre della Silvia Conti, scritto nel 1989 dal titolo “Gli anni sprecati”. Storie di prigionia, di guerra, di libertà agognata e sperata…
E tutto si chiude (forse… ascoltate la copia fisica e poi ne riparliamo) con “Bella Ciao”. Questo canto tradizionale partigiano diviene balcanico nel modo di arrangiare le chitarre acustiche. Ma non solo: diviene il vero simbolo di questo disco. Partigiano, come lei, come Silvia Conti, partigiano come suo padre, come il suo libro, partigiano che non significa solo “indipendente e libero”, ma anche pronto a combattere per una simile condizione. Forse è questo il vero “piano B” di Silvia Conti: l’America come terra promessa nel cuore romantico che avevamo da bambini, le chitarre e il suono sporco di vita come accade quando la vita sai bene come funziona… partigiano, come quando hai le spalle grandi per portare a spasso te stesso contro tutti. “Ho un piano B” è un bel disco davvero… non cambierà le sorti e molti se lo stanno perdendo senza troppi danni irreparabili. Ma la bella musica italiana riparte anche da qui…
|