Un tempo, nell’ambito del post-rock, beniamini di testate specializzate quali, in Italia, “Blow Up magazine”, i Gastr del Sol sono oggi un po’ dimenticati.
“We Have Dozens of Titles”, raccolta di brani di diversa provenienza, tra cui inediti e registrazioni dal vivo, riporta, per così dire, il gruppo sotto i riflettori.
Jim O’Rourke e David Grubbs (più noto il primo del secondo per l’attività di produttore, e per i suoi trascorsi come membro dei Sonic Youth) sono due artisti fondamentali della scena indipendente americana; entrambi vantano un repertorio di incisioni sterminato, e non hanno mai smesso di partecipare e di dare vita a un’infinità di progetti.
Le loro composizioni catturate su nastro come Gastr del Sol, tra l’inizio e la fine degli anni Novanta, sono un caleidoscopio musicale scintillante, anche se non sempre di facile fruibilità.
Paesaggi sonori eleganti e aggraziati, tratteggiati con arpeggi di chitarra e/o rarefatte note di piano (“The Seasons Reverse”, “Quietly Approaching”, “Blues Subtitled No Sense of Wonder”) si alternano a passaggi dissonanti e increspature rumorose (“20 Songs Less”) e a momenti di silenzio, o a istanti in cui aleggiano atmosfere sognanti o sospese.
Talvolta si rasenta l’inascoltabilità: “Dead Cats in a Foghorn” è quasi immobile; la lunga “The Harp Factory on Lake Street” (tra i musicisti, John McEntire al sintetizzatore), sorta di musica da camera d’avanguardia, è priva di qualsivoglia melodia, e forse troppo prolissa nel suo astrattismo acustico.
I ghirigori di “Dictionary of Handwriting” sembrano a vanvera, ma l’intreccio di sei corde nella parte finale riscatta il pezzo. Stesso discorso per “Onion Orange”, in cui l’impiego di due chitarre elettriche e di elettronica misurata produce un risultato indubbiamente interessante.
Una musica, insomma, che rifugge l’orecchiabilità, e che può essere apprezzata solo se le si dedica la dovuta attenzione. L’ascoltatore diligente sarà però ripagato dello “sforzo”.
Uniche pecche da segnalare, per l’edizione in vinile (triplo LP contenuto in un cofanetto): il costo eccessivo, e la confezione spartana, per quanto perfettamente in linea con l’estetica minimalista delle uscite della band. Si tratta infatti, più o meno, di una ristampa; quindi, un giornalista o un critico che buttasse giù due righe per un booklet la Drag City avrebbe pure potuto trovarlo.
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