“Modern Times” - 44esimo album di Bob Dylan contando live e “bootleg series” – non era quasi neanche uscito, che già si iniziavano a leggere sulla carta stampata e sul web montagne di commenti entusiastici pressoché unanimi. Al che, dopo aver ascoltato diligentemente l’ attesissima “opera” in questione, al sottoscritto è venuto spontaneo intimare e intimarsi, come usa fare in quel di Roma: “frena i freni…!” Innanzitutto “Modern Times” è il prodotto della mente e della creatività di un anziano signore di 65 anni. E si sente: come è ovvio che sia le 10 canzoni qui contenute non sono “gutsy”, ma mosciarelle anzichenò. Sono sofisticate e riflessive invece di essere eccitanti e, magari, “sexy”. Dylan non è più uno che innova, come fece – e come lo fece! – nel suo gloriosissimo passato, ma piuttosto volutamente attinge agli stilemi e alle tradizioni di quell’immenso e fecondo pozzo che è la Musica Americana. Per questo motivo, agli under-35 – ma forse anche agli under-40 – consiglio caldamente di non procedere oltre nella lettura di questa recensione: su “Modern Times” non troveranno nulla che possa avere un qualche significato per la loro esistenza; c’è un Dylan molto più essenziale che ha operato qualche era geologica fa – diciamo tra il 1962 e il 1980 – e sono “quelli” i dischi a cui sono reindirizzati. Agli altri invece, ai dylanologi con la barba bianca che non vedono l’ora di estrarre dalla scatola il sigaro dei giorni di festa prima di apprestarsi a mettere sul lettore “Modern Times”, qualcuno dovrà pur cercare di instillare il dubbio che questa storia che va in giro da qualche tempo, del cosiddetto “rinascimento dylaniano”, è in realtà una colossale forzatura mediatica. Per riassumere: intorno alla fine degli anni ’80 Dylan iniziò a inanellare una serie di album uno peggio dell’altro. Sembrava cotto, bollito, finito. Si mise persino a incidere brani altrui; proprio lui, uno degli autori più prolifici e coverati della storia del rock! Poi nel ’97 pubblicò “Time Out Of Mind” e – sorpresa! – finalmente era una raccolta più che dignitosa, dove sembrò che Dylan fosse riuscito finalmente a trovare la sfuggevole musa della maturità che stava cercando. Seguì nel 2001 l’altrettanto acclamato “Love And Theft”; negli ultimi due anni, poi, lo strepitoso documentario di Martin Scorsese sui primi anni della carriera di Dylan “No Direction Home” e l’uscita del primo volume di “Chronicles” autobiografia dello stesso, sono stati strumentali nel far sì che oggi l’artista di Duluth possegga uno status irraggiungibile e mitologico. E a far diventare quasi parossistica l’attesa per questo nuovo capitolo della “trilogia del Rinascimento” intitolato “Modern Times” forse – chissà, con Dylan non vi è certezza – in omaggio al Chaplin di “Tempi Moderni”. Allorchè – diciamoci la verità – “Modern Times” è il decoroso – come decorosi benché sopravvalutati sono stati “Time Out Of Mind” e “Love And Theft” – prodotto di un Dylan giunto nella fase finale della sua irripetibile curva artistica. E’ un disco in cui il Nostro, assecondato dalla band che lo accompagna usualmente nelle tournèe dal vivo (il bassista Tony Garnier, il batterista George G. Receli, i chitarristi Stu Kimball e Denny Freeman ed il polistrumentista Donnie Herron) propone alcune proprie, “dylaniane”, rivisitazioni del rhythm’n’blues, del country & western e perfino del pop orchestrale pre-rock’n’roll degli anni ’40. La grande sorpresa di “Modern Times” è, in fondo, che ci sono ben poche sorprese. Dylan cita e si autocita, fin dall’iniziale scoppiettante “Thunder On The Mountain” dall’incedere presleyano, che ricorda le cose più ritmate da lui stesso proposte su “Blonde On Blonde” (1966). Contiene anche una delle poche sorprese del disco, consistente nella presenza nel testo della cantante r’n’b – che potrebbe essere figlia di Bob se non sua nipote – Alicia Keys (“I was thinkin' 'bout Alicia Keys, couldn't keep from crying / When she was born in Hell's Kitchen, I was living down the line /I'm wondering where in the world Alicia Keys could be / I been looking for her even clear through Tennessee”). Se “Thunder On The Mountain” è comunque un gustoso avvio, è soporifera la successiva “Spirit On The Water”, un lunghissimo lento orchestrale che sembra non finire mai. Pare invece di sentire Muddy Waters in “Rollin’ And Tumblin’”, con un testo che pare un tagliaeincolla di quelle celebri canzoni rhythm’n’blues della Atlantic dell’epoca d’oro. E siccome Dylan non fa mai nulla per caso, è evidente che si tratta di un gioco di rimandi e citazioni assolutamente voluto, una sorta di esercizio mnemonico da fare con i propri aficionados. Su “When The Deal Goes Down” ci spostiamo dalle parti del country primigenio di Hank Williams, con una lirica fortemente accorata ove Dylan dichiara alla sua bella “I'll be with you when the deal goes down”. Tuttavia la voce odierna di Dylan, sempre più roca e cavernosa e con un effetto alla carta vetrata, si adatta decisamente meglio ai brani rhythm’n’blues, come ad es. la successiva “Someday Baby”, uno dei brani più riusciti di “Modern Times”. Risulta indigesta invece “Workingman’s Blues #2”, ballad accorata in cui il maestro Dylan sembra quasi abbassarsi a fare il verso all’allievo Springsteen nei suoi più frusti momenti melanconici; e passa inosservata “Beyond The Horizon”, ulteriore ballad orchestrale con un testo da cartolina. Fin qui niente di trascendentale e anzi, piuttosto deludente. “Modern Times” riesce però a strappare la sufficienza con la sequenza di brani finali, tutti e tre di buona levatura, almeno per quanto ci si può attendere dal Dylan del 2006. “Nettie Moore” ricorda nell’incedere e nel cantato un brano dei Lambchop di Kurt Wagner – se non fosse poi che a sua volta Wagner è influenzato da una o due cosette prodotte nella sua città di provenienza, Nashville. E’ ancora una canzone d’amore – tema dominante dell’album, ciò che ha fatto ritenere ai dylanologi di tutto il globo che in questi giorni ci sia una nuova presenza femminile accanto a Bob. E’ poi frizzante e spassosa, quasi come una nuova “Rainy Day Women”, “When The Levee Gonna Break”, barrel-house blues ispirato da Memphis Minnie il cui testo – “Se continua a piovere / la diga cederà…” – alcuni si sono spinti a considerare un commento sul dramma causato a New Orleans dall’uragano Katrina, ma trattandosi di Dylan è probabile che non sia così…Il clou dell’album è poi indubbiamente “Ain’t Talking”, la ballad finale che ricorda nella melodia delle strofe il Leonard Cohen dell’epoca “Suzanne” e in cui Dylan ci regala una intrigante lirica biblico-apocalittica colma di metafore – cose in cui Lui è maestro – sulla cui interpretazione ci si potrà sbizzarrire per anni se non decenni. Come per un riflesso condizionato, molti da Dylan si aspettano sempre (ancora) una parola, un’illuminazione, un gesto, uno spunto profetico. Mentre in fondo Lui, oggi come allora, ci parla “solamente” di vita, di morte, di amore, di Dio e della sofferenza dei poveri cristi. “Ain't talkin', just walkin' / Up the road, around the bend / Heart burnin', still yearnin' / In the last outback at the world's end”... E’ così che si conclude, con una forte affermazione, il 44esimo disco del bardo di Duluth: Dylan non è un quaqquaraquà, ma uno che cammina e lavora – e ogni anno dà una media di 130 concerti! - e crea musica e intende continuare così fino alla fine. Certo: con risultati appena più che dignitosi, come su “Modern Times” - e prima ancora su “Time Out Of Mind” e “Love And Theft” - ma alla sua veneranda età può anche andare bene così. Bentornato, Gigante.
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