Mentre sono ben lieto che qualcuno - Todd Haynes - abbia finalmente realizzato un bel filmone suggestivo e surreale in celebrazione del "mistero dylaniano", resto abbastanza convinto dell'inutilità in questo momento di altre 33 cover di Bob Dylan, quali queste contenute nel doppio CD colonna sonora di "I'm Not There". Di raccolte di cover del grande Bob ce ne sono già migliaia, e in realtà ci sono sempre stati, fin da prima che nascessi io e il 99 per cento delle persone che mi leggono, LP dove "Somebody Sings Dylan". Negli ultimi tempi, poi, questa pulsione a rifarne le canzoni ha raggiunto livelli di iperinflazione benché tali operazioni siano spesso state (sul piano artistico) fallimentari. Viene da pensare al recente deludente "Dylanesque" di un Bryan Ferry che purtroppo è giunto all'appuntamento ormai bolso e con una voce da rottamare, lontana anni luce da quella eccelsa prova giovanile del 1973, quando aveva dato vita a una delle più belle versioni di sempre di "A Hard Rain's A Gonna Fall". Ma gli esempi di cover di Dylan che restano lontane dalla sufficienza sono e restano tantissimi. Il fatto è che il territorio delle cover è più impervio di quanto si pensi. E' necessario aggiungere qualcosa di extra alla versione originale, far affiorare una dimensione nuova che prima non c'era, altrimenti il tutto si riduce a un deprimente karaoke. Dylan, poi, è un caso particolare: in genere "migliorare" Dylan è possibile solo se si possiede una voce ben impostata e con una vasta estensione, praticamente all'opposto di quella di Bob che ha altre qualità ma certo non si può definire “aggraziata”. E' forse per questo che storicamente tante artiste donna – a memoria Joan Baez, Judy Collins e Julie Driscoll – hanno avuto vita più facile nel risultare convincenti interpreti di Dylan. A confermare la regola, anche su "I'm Not There" le cose più belle le realizzano due giovani signorine: l’ormai stranota Cat Power e la semisconosciuta Mira Billotte. Cat Power, che - mica scema - si cimenta con un pezzo da novanta come "Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again" da "Blonde On Blonde" (1966), dà l'impressione di traboccare di gioia mentre intona "dylanianamente" i contorti versi di questo splendido tour de force: Dylan è uno dei suoi massimi idoli ed è palbabile l’ardore e la convinzione della cantautrice della Georgia, peraltro ben supportata con uno scoppiettante arrangiamento dalla sua Dirty Delta Blues Band. E Mira Billotte, cantante del gruppo di Brooklyn White Magic, fa altrettanto bene con “As I Went Out One Morning” da “John Wesley Harding” (1968) che le sue cristalline corde vocali fanno diventare una pura e incantevole ballata pop. Nessuna delle due – né Cat Power né Mira Billotte – tenta alcunché di particolare e/o “sperimentale” con le rispettive selezioni: nel loro caso è la voce, e l’interpretazione, a fare la differenza, ed è quanto basta a far sì che sia “..Mobile” che “...Morning” facciano una splendida figura rispetto agli originali.
Di base, gli interpreti di “I’m Not There” sono stati scelti tra i maggiori esponenti dell’attuale scena alternativa (“roots” ma non solo) con quattro significativi inserimenti di contemporanei di Dylan quali Ramblin’ Jack Elliott, Willie Nelson, Roger McGuinn e Richie Havens. Poteva essere l’occasione per introdurre il talento di Dylan alle nuove generazioni, ma - come prevedibile - un gran numero di queste cover risulta invece inutile se non perfino irritante. Fallisce in pieno Eddie Vedder dei Pearl Jam che appiattisce “All Along The Watchtower” fino a farlo diventare un brano da stazione radio FM anni Ottanta; è insulsa la versione di “Highway 61 Revisited” dall’album omonimo (1965) di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs, che potrebbe quasi essere la colonna sonora di un cartone animato; banale, e troppo vicina all’originale, la cover di Mason Jennings di “The Lonesome Death Of Hattie Carroll” (da “The Times They Are A-Changin’”, 1964); urticante, e con un’interpretazione vocale ancora più sgraziata di quella di Dylan, la “Simple Twist Of Fate” – tra i brani chiave del capolavoro “Blood On The Tracks”, 1975 – di Jeff Tweedy dei Wilco in modalità solista; appare pedante (come peraltro talvolta gli capita di essere) e senza idee Sufjan Stevens alle prese con “Ring Them Bells” (da “Oh Mercy”, 1989); sono troppo scontatamente “springsteeniani” gli HoldSteady di “Can You Please Crawl Out Your Window” – 45 giri del 1965 – che per qualche motivo ignorano la melodia della strofa chiave del brano, quella “You’ve got a lot of nerve to say that you’re my friend” che negli anni ’60 fece epoca; ed è inaspettatamente stravolta e bruttina la rilettura che Roger Mc Guinn (lui che con i Byrds diede vita ad alcune delle cover più memorabili di Dylan) dà di “One More Cup Of Coffee” da “Desire” (1976) con l’accompagnamento dei Calexico. Sono invece senza infamia e senza lode le prove di Tom Verlaine, Willie Nelson, Richie Havens, Yo La Tengo, Iron & Wine/Calexico, Jim James dei My Morning Jacket, Los Lobos, Charlotte Gainsbourg, Antony & The Johhsons, Glen Hansard & Marketa Inglova e Bob Forrest. Nessun commento, poi, sulla performance di Marcus Carl Franklin che nella vita fa l’attore - e l’ha fatto anche su “I’m Not There” dove ha impersonato (uno dei tanti) Dylan – e non il musicista. Piacciono invece (e non me l'aspettavo) le interpretazioni di Stephen Malkmus. L’ex-Pavement, accompagnato dai Million Dollar Bashers (una superband in cui spiccano Lee Ranaldo dei Sonic Youth e Tony Garnier già bassista di Dylan) si cimenta con ben tre brani. Lasciando da parte “Maggie’s Farm” con cui è difficile inventarsi alcunché, negli altri due – “Ballad Of A Thin Man” da “Highway 61 Revisited” (1965) e “Can’t Leave Her Behind” (frammento dell’epoca d’oro), Malkmus rimpiazza la perfidia e la malevolenza degli originali dylaniani con uno stupore naif e una pulizia di dizione che – come dicevo all’inizio – conferiscono a Dylan una nuova inedita dimensione che negli originali era assente. Se la cava benino anche John Doe, l’ex leader degli X che canta con buona convinzione le acustiche “Pressing On” da “Saved” (1980) e “I Dreamed I Saw St.Augustine” da “John Wesley Harding” (1968). Conferma di essere un fuoriclasse Mark Lanegan che fa diventare la già tetra “Man In The Long Black Coat” (da “Oh Mercy”, 1989) una ballad nera come la pece. Non sono male i Black Keys con una piacevole versione blues minimale di “Wicked Messenger” (sempre da “John Wesley Harding”, album assai saccheggiato), né i Sonic Youth alle prese con l’inedito dai “Basement Tapes” (e quindi 1967 o giù di lì) “I’m Not There”, cantato da Thurston Moore e reso nel classico stile SY. E infine, nota di merito per l’’unico dei contemporanei di Dylan che lascia una favorevole impressione: l’anziano folk-singer del Greenwich Village Ramblin’ Jack Elliott, ripescato per l’occasione dall’oscurità, che produce un’intensissima versione acustica dell’originariamente elettrica “Just Like Tom Thumb’s Blues” da ““Highway 61 Revisited".
Ma – per fortuna - non è tutto qui. Perché la colonna sonora di “I’m Not There” si chiude con il Bardo in persona, e con il suo brano inciso nel corso delle “Basement Sessions” con la Band in quel di Woodstock nel ’67, che dà il titolo a film e disco e che prima d’ora non era mai apparso su un disco ufficiale. Forse non appartiene al top del suo repertorio, “I’m Not There”. Ma è intensa e narcolettica, ed è comunque superiore alla maggior parte delle cose che il grande Bob ci ha proposto dal 1990 ad oggi. E soprattutto lascia ben sperare che una versione ragionevolmente “completa” dei “Basement Tapes” veda finalmente un giorno la luce. Che sia un giorno non troppo distante, però...
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