I Delphic rappresentano un tentativo di avvicinarsi a ciò di cui la musica aveva bisogno ma di cui, al tempo stesso, non si conosceva la forma.
Ebbene, con questo gruppo di Manchester che presto si esibirà anche in Italia, l‘innovazione musicale non è più soltanto un’utopia ma anche parte della realtà. Facendo il verso alle colonne sonore alla Tykwer dei tempi di Lola Corre e alla musica Anni Novanta, mescolandola con indie e rave, i Delphic sfoderano tutte le migliori armi di cui dispongono, rievocando paesaggi industriali nei quali non sono sufficienti sbarre di acciaio per imprigionare la natura umana, o dove strade asfaltate non riescono a negare lo spazio che i fiori pretendono. Voce decisa, sonorità che riportano alla mente i riverberi d’acqua mediante delay e tutti gli strumenti musicali di cui un gruppo non può privarsi, accompagnati dai synth di cui nessun produttore può fare a meno (soprattutto se il nome del produttore risponde a quello di Ewan Pearson, che già ha lavorato con i Ladytron), questa nuova band prende spunto dai New Order più dance (Doubt) senza mettere da parte il pizzico di novità che consiste in quella loro intuizione che li ha portati ad amalgamare indie e musica elettronica.
Alla luce di tutto ciò si potrebbe voler gridare al capolavoro, ma qualche delusione non manca in questo album d’esordio; la lunghezza raramente è un punto forte nella musica (se non con rare eccezioni), stessa cosa vale per il tentativo di associare troppi stili musicali. La coerenza, infatti, consente ad un gruppo di essere identificato in un qualche modo, per restituire non solo un’immagine di sé fedele ma, soprattutto, per caratterizzare l’epoca che vuole rappresentare. L’alternare pezzi che si avvicinano più all’ambient (Acolyte) o al kraut (Alterstate) con altri che sono più marcatamente new wave, senza però creare una continuità tra gli stessi che generi un insieme organico ma non monotono, confonde l’ascoltatore, che si perde tra mille bolle di sapone, plastiche ed effimere nonché già sperimentate. Il dieci che voleva essere pieno e accompagnato da lode, sfuma così condensandosi in un sette che, da un lato, apprezza il tentativo di innovare che hanno fatto questi acolytes della dance di Manchester, dall’altro ricorda loro che la strada per dare vita ad un nuovo genere musicale, che rappresenti in pieno questo nuovo decennio, è ancora lunga ma, forse, non fuori dalla loro portata.
I Delphic sono, per il momento, come le lucine sulle cravatte dei Kraftwerk che pulsano nel loro splendore nel video del ’77 The Robots: apprezzate, apprezzabili, ma già viste.
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