Circa tre anni fa, non ricordo nemmeno cosa esattamente mi avesse ispirato (probabilmente Federico Buffa), avevo cominciato a sceneggiare e scrivere uno spettacolo sulla storia dei Mondiali di calcio. Avevo pensato di prendere un “episodio- chiave” per ogni edizione dei Mondiali, raccontarlo sotto forma di monologo e farlo accompagnare da un sottofondo strumentale, una cosa a metà fra “ ‘900” di Baricco e “Bestiario italiano” di Marco Paolini. O meglio, se non a metà, quantomeno ispirata. Avevo anche pensato di portarlo in scena ad un mese esatto dai Mondiali russi del 2018. Poi, “grazie” al Generale Cadorna della panchina, è capitato quel che è capitato, ed il clima sportivo non mi sembrò esattamente dei migliori per mettere su palco una cosa del genere.
Avevo scelto di parlare di singoli episodi perché ho, appunto, quella passione matta per il raccontare storie. Ed, al di là dei benaltrismi da baraccone e delle presunte (???) supremazie intellettuali (???) di chi non lo segue, il calcio rimane anche un fenomeno culturale, una specie di cartina tornasole della collettività. Ed ha, di tanto in tanto, connaturati in sé dei momenti di poesia tanto alti da essere incredibili. Non a caso Eduardo Galeano ed Osvaldo Soriano hanno scritto delle pagine di altissima letteratura parlando di calcio.
Ad ogni modo, fra i racconti portati a termine prima di interrompere, per cause di Svezia maggiore, la scrittura (si badi bene: interrompere. Se tutto va bene, ci si vede fra un paio d’anni, e potrebbe essere una minaccia, soprattutto per chi, fra i miei collaboratori, leggerà questo articolo, ndr) ce n’era uno che parlava di un ragazzo tozzo e riccio che, nell’86, in Messico, si inventò due gol, a loro modo, geniali. Tralasciando il primo, che è stata (ed è) fra le furbate più basse e, contemporaneamente, più punk della storia del pallone, il secondo è un incredibile affresco di epica cavalleresca, civile e politica applicata al calcio.
E la cosa incredibile è che, insieme a quel gesto tecnico di abbagliante e geniale follia, nella storia sono entrate, guarda tu, le parole che quel gesto lo hanno raccontato.
Sono, pressappoco, queste:
«...la va a tocar para Diego, ahí la tiene Maradona, lo marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fútbol mundial, y deja el tendal y va a tocar para Burruchaga... ¡Siempre Maradona! ¡Genio! ¡Genio! ¡Genio! ta-ta-ta-ta-ta-ta... Goooooool... Gooooool... ¡Quiero llorar! ¡Dios Santo, viva el fútbol! ¡Golaaaaaaazooooooo! ¡Diegooooooool! ¡Maradona! Es para llorar, perdónenme ... Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos... barrilete cósmico... ¿de qué planeta viniste? ¡Para dejar en el camino a tanto inglés! ¡Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina!... Argentina 2 - Inglaterra 0... Diegol, Diegol, Diego Armando Maradona... Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 - Inglaterra 0.»
A pronunciarle è Victor Hugo Morales, il telecronista di quell’Argentina- Inghilterra. E, nonostante io abbia visto centinaia di volte quei secondi di video in cui Maradona riceve palla a centrocampo, si fa sessanta metri di campo in dieci secondi, mette in fila Hoddle, Reid, Sansom, Butcher, Fenwick e Shilton e poi appoggia in rete, non sono ancora riuscito a capire se ci sia più poesia nel gol in sé o nel fatto che quel preciso gol sia accompagnato da quella precisa telecronaca.
Telecronaca che praticamente nessun giornalista italiano (Federico Buffa a parte) sarebbe stato in grado di fare allora, figuriamoci adesso. A nessuno verrebbe in mente di parlare di un “barrilete cosmico”, di un aquilone cosmico parlando di calcio. E, soprattutto, a nessuno verrebbe in mente di applicare la poesia al pallone, essendo tornati in una specie di “suprematismo culturale” secondo cui il calcio è merda, come ai “bei tempi” di quando a dire le stesse cose erano, purtroppo, i compagni. Anzi, meglio: i sedicenti compagni.
Ma comunque, se ho cominciato il racconto di questo album parlando di Maradona e di Hugo Morales è perché HugoMorales è il nome d’arte di Emiliano Angelelli, che è l’autore di “Oceano”, l’album in questione.
Intanto è dedicato a Mirko “Zagor Camillas” Bertuccioli, e già per questo merita abbastanza.
E poi stiamo parlando di un concept album, che è una cosa benedetta, soprattutto in tempi di poca attenzione all’ascolto. Anche perché “concept album” significa, spesso e volentieri, coerenza narrativa e, soprattutto, significa raccontare una storia “in toto”.
Il concept di “Oceano” è a metà fra la distopia in generale, e nello specifico quella di “Solaris” di Stanislaw Lem (di cui il genio di Tarkowski ha tirato fuori uno dei suoi capolavori), ed il nostro recentissimo vissuto.
Si racconta di pesci che conquistano la terra, cacciando gli umani in mare. Ad un certo punto, un misterioso virus umano costringe i pesci a cercarsi un’altra sistemazione, che, in seguito alla “Missione Delfino”, viene trovata in Orione. Dentro questa storia si snoda una gran quantità di temi: i pesci sono delle figure quasi antropomorfe, hanno preso praticamente tutti gli aspetti umani: pescano gli uomini come sport ma, al contempo, ne provano le stesse sensazioni, le stesse paure. C’è il tema del viaggio obbligato, che, con un’associazione di idee da flusso di coscienza, si ricollega prepotentemente al tema del mare. C’è il tema del ritorno alle origini, del riappropriarsi della propria natura pur con enormi stravolgimenti.
Tutti questi temi sono montati su un oceano di synth, affondati in un’atmosfera molto ’70, alla Baustelle di “L’Amore e la Violenza”, un pop molto ben fatto, con quei lontani echi di battiatismo per cui tanto esco pazzo.
Notevoli sono anche la ritmica di “Pesci in quarantena” e le chitarre di “Tracheotomizzi”, mentre i due pezzi strumentali (con “cantato” di delfini e balene), “Missione Delfino” ed “Il canto delle balene” portano l’album verso una dimensione sperimentale e kraftwerkiana. Oltre a questo, in un mondo discografico giusto, “Calypso senza pietà” sarebbe una vera e propria hit: ha testo, ritmica e freschezza.
Interessante è anche la parte cantata, tendente ai toni bassi, seguente quel “deandreismo” vocale che, e penso allo stesso Bianconi, va per la maggiore al momento.
Anche la parte testuale è composta molto bene, e fa tornare alla perfezione il senso distopico ed, al contempo, acquoso dell’opera. C’è una scrittura che danza su passaggi decisamente più introspettivi, ma che riesce ad essere, allo stesso momento, universale e poetica.
Insomma, è un gran lavoro, credo lo abbiate capito. E’ contemporaneo, che è diverso da “attuale”: è un disco che racconta di situazioni e sensazioni che saranno valide anche fra qualche anno (magari, speriamo, quarantene a parte), racconta dell’uomo parlando dei pesci. E suona ricercato ma pop. Ha il giusto equilibrio, riesce a stare a pelo d’acqua ora con la brezza in fronte di una tavola da surf ora con la fragilità di una barchetta di legno. Ma riesce comunque a galleggiare alla grandissima.
Articolo del
16/06/2020 -
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