L’altro ieri (che, nel momento in cui scrivo, equivale a martedì) ho lanciato una petizione sul solito ed inutile Change.org.
In breve, la petizione consisteva nel chiedere l’abolizione dell’utilizzo dei synth dalla musica indie/ indie pop, o quantomeno di lasciarli usare solo a chi sa effettivamente farlo, se non altro per evitare l’effetto costiera romagnola estate ’87.
Che fosse una presa in giro, pensata solo per far baccano gratuito, non dovrei neanche scriverlo, tanto è palese. Ma l’ho scritto lo stesso perché, visti i tempi, non si sa mai.
In realtà la boutade nasceva da un motivo ben preciso: effettivamente l’uso reiterato e “stereotipato” (ogni tanto soffro di aggettivazione impropria, perdonatemi) dei synth ha frantumato i coglioni, finendo per proseguire quel discorso- decisamente achillelaurista- dello spacciare la reazione per novità.
I synth, certi synth, sono nati vecchi. Sparare su Tommaso Paradiso è come sparare sulla Croce Rossa, ma tant’è, questo revivalismo da Stadio (il gruppo, non il luogo, ovviamente) lo ha iniziato lui.
E poi io bastono l’uniforme, non necessariamente il soldato che la porta. Certo, se dentro l’uniforme c’è Paradiso, ancora meglio, eh…
Dicevamo che i synth sono nati vecchi. Ecco, molti discografici lo sanno, ma continuano ad usarli come riempitivi dei loro pezzi. Ed, ovviamente, continuano a spacciarli anche come mirabolanti novità, che è un po’come quando Luttazzi si faceva figo scopiazzando George Carlin.
Sono bellissimi quando sbandierano queste nuove leve come “il futuro della musica italiana”, fingendo apertura e sprezzo di qualsiasi rischio, sapendo di non rischiare manco per il cazzo.
Mi ricordano- seppur con tutte le differenze del caso- Marco, il personaggio di Paolo Pietrangeli in “I giorni cantati”, quando alla fine del film sale di nuovo sul tettuccio della macchina con la chitarra in mano ed inizia il conto alla rovescia per suicidarsi, finendo per non farlo e continuando a canta(conta)re.
Tanti (finti) aspiranti suicidi che però sanno perfettamente che non si uccideranno.
Capita poi che nel mazzo degli indipendenti (anche se ormai sono quasi tutti indipendenti) ogni tanto esca fuori qualcuno che ha davvero qualcosa da dire, con una certa predisposizione nello scrivere pezzi spettacolari ed in una manciata di minuti riesce a mandare in Tilt il sistema.
Chiaramente il rimando al Tilt casuale non è, avrei potuto trovare mille modi diversi per esprimere quel concetto, ma è come sempre funzionale al tema centrale del disco- sempre di musica mi occupo, anche se spesso passo per il mio medesimo biografo- e della sua narrazione.
Altrettanto chiaramente il disco in questione si intitola esattamente “Tilt” ed è il nuovo lavoro in studio di Pino Marino.
Nuovo lavoro in studio che giunge a cinque anni di distanza da “Capolavoro” e, soprattutto, a vent’anni da “Dispari”, che era stato il suo esordio.
E’, questo, un album dai toni e dai timbri musicali abbastanza diversi rispetto ai precedenti lavori: alle atmosfere più intime e più rarefatte da “Acqua, luce e gas” e “Non bastano i fiori” si alternano nuovi colori musicali decisamente più trascinanti ed accesi. L’elemento di continuità è, ovviamente, la parte testuale, e perché no, letteraria, come sempre evocativa e mai banale.
Ma andiamo a vedere (e soprattutto a sentire) più nello specifico.
Nuovo lavoro che non poteva non aprirsi con l’ormai proverbiale “poropipò” di Pino Marino”, che è la scala di pianoforte che apre “Calcutta”, primo pezzo in scaletta e primo singolo dell’intero lavoro. Su una serie di fotogrammi di una Roma assolutamente distopica, quasi in lockdown (nonostante il pezzo nasca abbastanza tempo prima) si poggia una base musicale trascinante, quasi a là De Gregori di “Centocinquanta stelle”, con pianoforte e schitarrate elettriche in bella mostra. Ovviamente degno di attenzione è il testo, a svariati piani di lettura e con delle trovate letterarie a tratti geniali, dalla “premura dei pretoriani” che “ferma le vespe e lascia andare i calabroni” fino all’idea di riportare ostinatamente tutto al proprio posto, con quel monito che ripete che “Calcutta rimane anche per oggi la capitale indipendente del Bengala occidentale”.
A seguire troviamo “Pensiero Nucleare”, brano dai toni più elettronici, in cui trovano spazio una bella chitarra elettrica ed una acustica che trascina la ritmica del pezzo, mentre interessante è anche la linea di basso in discendenza del bridge. Delizioso quel “generazioni generano nazioni fuori dalle stazioni”, parte di un testo che ha nel suo incipit, “Passato lo spavento nucleare, impoverito l’uranio da solo in fondo al mare” e nell’altro passaggio, “una borraccia per la sete o il pianeta muore”, il tilt causato dai tempi convulsi del mondo moderno.
“Caterina volentieri” è il terzo pezzo, anche qui con una consistente presenza dell’elettronica e con una linea di basso che è il tocco di movimento e di imprevedibilità. Ah, ascoltate questo pezzo se volete capire come usare un synth. Poi ad un testo che inanella strofe del genere:“Affacciata alla finestra guarda il bello che non basta, però quello che la lega è ciò che non le piace più. Come il giallo di ginestra aggrappato ad un vulcano, sta bruciando sul divano e il giallo non diventa blu”, che passano anche per Leopardi, credo non ci sia nulla da aggiungere.
Anche “La statua della libertà” è un pezzo che viaggia a colori elettronici, con i contrappunti di synth a dare imprevedibilità e movimento. “La libertà non è restare soli o avere tempo, la volontà dei fatti lega l’edera al cemento, la parola che non ha radici fa grammatica nel vento.”
“Maddalena” vede Pino incontrare la preziosa voce di Ginevra di Marco, su un pezzo dai toni più “classici”, sostenuto da un arpeggio di chitarra acustica, che va a fare la ritmica insieme al pianoforte al crescendo del pezzo. L’elettronica compare solo negli intermezzi strumentali, accompagnata dal contrabasso, che sul finale ne segue precisamente la linea. Due voci che si fondono alla perfezione, in un pezzo elegante già dalla stessa melodia e commovente nella storia e nel testo. “A me rimane aver capito che solo amore dato è amore avuto.”
I timbri più elettronici, sorretti tuttavia da un pianoforte, ritornano su “Io non sono io”, in un testo che gioca sempre con versi ed immagini magnifiche come “ Se amore è una parola, disappunto è una parola. Cultura è una signora con una scarpa sola e un semaforo lampeggia, giallo, nel deserto, perché il verde fa paura e il rosso è la coscienza che non ho provato ancora, perché ho dimenticato, perché non ho mai scelto, perché ho semplificato a distanza ferroviaria ciò che non riconosco dalle idee nella mia stanza a cui non ho mai dato aria.”
“La mia velocità” è forse il pezzo più “vecchia scuola”, più vicino ai precedenti lavori: un brano delicato, accompagnato dal pianoforte e da un tappeto di synth che riprendono degli archi. Nel testo c’è l’ennesimo tilt della società moderna, quell’ “uomo più lento del mondo” che “ha spaventato il mondo con la velocità”, con la conseguenza che “ a quello che non capiranno mai cos’è daranno un altro nome inutile”.
“Crepacuore” si muove sulle stesse cadenze musicali, con un piano a sostenere sempre tutto, ma è colorato dal sax di Vincenzo Vicaro. E’, probabilmente, uno dei pezzi più belli dell’album, per intensità e soprattutto testo, che andrebbe seriamente riportato per intero e che contiene una enormità di spunti interessanti e balzi letterari magnifici: da “Gli orizzonti di una strada sulle spalle delle antenne non sostengono l’immensità del cielo, le pareti di una stanza non trattengono la vanità del falso quando vuol sembrarti vero” fino a “Il mio paese ha perso gli occhi, il mio paese non ci vede; il mio paese ha cento occhi, quindi allora ormai non crede. Il mio paese senza volto ha consumato le parole ed ha comunque mille bocche da riempire, ma non esiste cibo per sfamare chi presume le risposte che domande non ne vuole.”
Un altro dei momenti più alti dell’album è sicuramente “Roma Bella”, cantata interamente da Tosca. E’ un pezzo che quasi fa pace con i toni più da j’accuse di “Calcutta”, interpretato, come sempre, alla grande da una Tosca (accompagnata solo dal piano e dal violoncello di Giovanna Famulari) che ormai dovrebbe essere Patrimonio dell’Unesco, già solo per quello che riesce a trasmettere quando canta: è emozione, sentimento, una vera lezione di classe ed interpretazione. Non nego che è un pezzo che mi ha profondamente commosso, ed il ragionamento che ci sta dietro (semmai la commozione possa essere ragionata) è il medesimo che c’è dietro a “Crêuza de mä”: sono canzoni talmente radicate, con una identità talmente forte, da essere- paradossalmente- universali, vanno a toccare i nervi, fortunatamente sempre scoperti, dell’appartenenza al proprio territorio, e diventano atti d’amore che ognuno di noi dedicherebbe alle proprie città, nonostante i mille chiaroscuri che le popolano.
Pino e Titti sono riusciti a farmi piangere cantando Roma ma facendomi pensare anche a Palermo, credo sia una cosa che riesce solo ai grandi.
A chiudere l’album ci pensa la voce di Vinicio Marchioni, fra Checov e Monicelli ormai “sodale” teatrale di Pino, che raggruppa tutti i momenti di cortocircuito dei vari brani dando voce al Tilt finale, in un brano che- anche questa volta- spicca per intensità ed atmosfera. E che soprattutto rimette davvero al centro le parole e le carrellate di immagini che da queste possono scaturire.
A chiudere definitivamente il cerchio ci pensa anche la foto di copertina, che è “Gaza Bath Time”, di Emad Nassar, iconico scatto di un bagnetto fra le macerie di una casa sventrata di Gaza, definitiva concretizzazione del continuo tilt del mondo occidentale. Ma anche tentativo ostinato di costruire un dopo tilt.
A rendere fondamentale quest’ultimo lavoro di Pino Marino è proprio questa capacità di lettura del mondo contemporaneo e di tutti i suoi cortocircuiti, di tutte le sue contraddizioni. Dieci tracce che sono limpidi fotogrammi di un mondo che non si sa leggere, autoassolutorio nel creare tanti altri tilt invece che pensare a dei dopo tilt.
E’ la conferma che certe canzoni sono essenziali.
E che certa gente, che magari avrà capito la gravità delle situazioni, non ha capito affatto la gravità delle canzoni.
Articolo del
01/11/2020 -
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