Sono due fra gli artisti che più hanno influenzato la scena musicale moderna, dagli anni Settanta ad oggi. Due persone diverse, agli opposti forse, frontman come non se ne vedranno più, per molto tempo. Quest’anno i Queen sono stati riscoperti dal grande pubblico grazie al film Bohemian Rhapsody, che ha vinto 4 Oscar, che vi consiglio di vedere, come anche la dirompente esibizione dei Queen + Adam Lambert che ha fatto tremare le sedie degli Academy Awards.
Quest’anno, il 25 Giugno 2019, ricorre il decimo anno della morte di Michael Jackson, anche lui avrebbe voluto cimentarsi in un film, era un suo sogno, ma non ha fatto in tempo, (oltre ad un breve cameo in Man in Black III e il musical The Wiz), ucciso prematuramente dai tabloid, dal pregiudizio, dal razzismo, dalla sete di denaro. Molti penseranno che ci sia così poco in comune fra loro e credo che non sia vero, ed è questo che voglio fare, provare a capire quale sia quello straordinario filo che li accomuna e li allontana.
Partendo dai loro nomi, non a caso la regalità di entrambi: The King of Pop, il Re del Pop, un soprannome che è entrato nell’immaginario fino a diventare una consuetudine, e Queen, la Regina, il nome che lo stesso Mercury aveva dato a quel gruppo di cui era da poco entrato a far parte; un titolo importante, pomposo, quasi barocco, un po’ decadente, ma così “immediato e universale”, come ha dichiarato più volte. Un gioco di parole tra regina e puttana, ma capace di rappresentare bene la personalità che lo contraddistingueva.
Sempre Mercury, (all’anagrafe Farrokh Bulsara, nome che poi lui stesso ha cambiato, mercurio era il mitico messaggero degli dei romani), grazie alla sua grande passione per l’arte in generale, ha creato il famosissimo logo dei Queen, con uno studio intorno ai segni zodiacali dei quattro componenti del gruppo. Di preciso, i leoni rappresentano Roger Taylor e John Deacon, il granchio Brian May (cancro) e le due fate bianche Freddie Mercury che era della vergine. (nato il 5 Settembre 1946). Anche Michael Jackson era della Vergine, nato il 29 Agosto 1958, e anche lui aveva un’innata passione per l’arte, come si può notare dalla complicata copertina di uno dei suoi album più famosi, Dangerous: Michael si avvalse della collaborazione dell’artista Mark Ryden e ancora oggi quella cover è considerata una delle più misteriose della storia della discografia. Jackson, inoltre, possedeva anche un buon talento come disegnatore e alcuni suoi disegni si possono vedere nel libro Danzando il Sogno (1992), unico testo mai scritto interamente da Michael Jackson, successivo alla sua autobiografia Moonwalk.
Regina, che ha dato il nome al primo album dei quattro inglesi, Queen, (1973), al secondo album, Queen II (1974), dove in alcune canzoni ricorre ancora la parola Queen: White Queen (as it began) scritta da il chitarrista Brian May, e The March of the Black Queen, scritta da Freddie. Ancora nell’album “Sheer Heart Attack” (1974), con il brano: Killer Queen.
Il successo della band aumenta fino ad arrivare a quella che è stata la prima canzone che ha dato ai Queen la loro connotazione operistica: Bohemian Rhapsody (1975). Scritta da Freddie Mercury, non è stata apprezzata dalla critica ma ha raccolto il cuore di milioni di fan, scalando vertiginosamente le classifiche di tutto il mondo, rimanendo prima in classifica per nove settimane.
Che dire di questa canzone, se non restare ad ammirarla in tutto il suo splendore. Un mix di rock, opera, cori raffinatissimi e lo spettacolare suono della chitarra di Bryan May. Quel riff spiazzante e indimenticabile, che piano piano svanisce fino a diventare il suono di un pianoforte, è ancora in grado di far rizzare i peli delle braccia anche se sono passati quarantaquattro anni. La canzone tocca tutti i temi bohemien: verità, amore, libertà, bellezza e morte.
L’amore, quel sentimento che non gli darà mai pace, che Freddie Mercury inseguirà per tutta la vita, che sarà presente in molte delle sue canzoni. L’amore che dura poco, intenso, che fa soffrire, indispensabile ma allo stesso tempo così sfuggevole. Tutte le canzoni d’amore di Freddie hanno un percettibilissimo fondo di tristezza: da una parte la voglia di vivere a pieno la vita (la sua vita, costellata di estremi ma anche di atteggiamenti sorprendentemente semplici) dall’altra, la continua rincorsa al vero amore. Quello che ha provato solo, forse, per Mary Austin, amica, confidente, amante, sorella, alla quale dedica un altro capolavoro: Love of my Life (1975), una fra le più belle ballate pop che siano mai state scritte.
Anche Somebody to love (1976), meno drammatica ma favolosa per i suoi complessi cori multi-tono. Quella di Mercury è una pretesa, un urlo, una richiesta senza mezzi termini: “qualcuno mi trovi qualcuno da amare!” E ancora One year of love, tratta dall’album A Kind of Magic (1986), che fa parte della colonna sonora del film “Highlander”: un brano semplice, orecchiabile e pop, ma la voce di Freddie che pare soffrire insieme al testo, lo rende straordinario. Dallo stesso album, Who wants to live forever (scritta da May), di cui tutti ricorderanno il favoloso duetto fra Mercury e May, il magnifico videoclip e la struggente frase finale: “Who dares to love forever?...When love must die”
Sempre scritta dal chitarrista, Too much love will kill you, pubblicata postuma nel 1995, nell’album “Made in Heaven”: il troppo amore uccide, tutte le volte, sembra essere il mood della canzone.
“The King of pop, rock and soul”, come lo ha soprannominato nel 1995 l’attrice e amica Elizabeth Taylor in occasione dell’uscita di History, il cd doppio più venduto nella storia della discografia, parla spesso di amore nelle sue canzoni, nei suoi videoclip. Ma a differenza di Freddie, non ha la sua stessa frustrazione. Non si sente la medesima tristezza, la disperazione della regina Mercury. Qualcosa di simile lo si trova in Who is it (1991), dove si percepisce un Michael sofferente, che esprime, attraverso i ritmi profondi della canzone, uno strazio interiore notevole: la perdita della persona amata, che sembra soffrire allo stesso modo, pur non essendo, almeno apparentemente, la parte lesa. E la drammatica voce di Michael, che, accarezzando le note, fa pensare che davvero questo amore finito lo possa condurre alla pazzia. “And she promised me in secret, That she'd love me for all time, It's a promise so untrue... Tell me what will I do?”
Anche She out of my life (1979): Michael sentiva talmente suo quel testo che, in studio, alla fine della registrazione, è scoppiato a piangere, come si può percepire nella parte finale del pezzo.
L’amore che esprime the King, appare, in molte altre canzoni, come un gioco rischioso ed eccitante, a tratti pericoloso. Come dimenticare la femme fatale di Dangerous, una brano dove i sentimenti, la sensualità e gli impulsi fisici sono portati allo spasmo dal cantato caldo e dal testo hot della canzone che nel booklet è modellato sul corpo di una donna. “And then it happened She touched me... And her mouth was Smoother than oil But her inner spirit and words Were as sharp as A two-edged sword. But I loved it 'Cause it's dangerous”
Ancora provocazione in Blood on the dance floor (1997), un video insolito, a cui Michael non aveva mai abituato i suoi fan: un sensuale passo a due, dove lui e la compagna sono vestiti di rosso, per esprimere passione e desiderio ma allo stesso tempo sangue, minaccia, incertezza.
Give in to me (1991), in cui le richieste d’amore diventano pretese, inasprite da un certo testo maschilista (non cercare di capirmi, fai quello che ti dico, soddisfa il mio desiderio) che portano la tensione della canzone a livelli altissimi. A dare il colpo finale è la chitarra di Slash che sconfina in toni decisamente più noir. “Don't try to tell me Because your words Just aren't enough, Love is a feeling, Quench my desire, Give it when I want it, Takin' me higher”
In the closet, (1991) il suo ritmo caldo che ricorda quasi un tango, il testo esplicito, un amore proibito da consumare in segreto. E l’indimenticabile video con una Naomi Campbell giovanissima e nel fiore della sua bellezza.
E dall’altra parte l’amore tremendamente romantico che The King ci ha regalato in alcuni indimenticabili pezzi, come The lady in my life (1981), I just can’t stopo lovin you (1987), The way you make me feel (1987) e Speechless (2001).
Le esibizioni dal vivo della Regina si sono concluse il 9 agosto 1986, al Knebworth Park nei pressi di Stevenage in Inghilterra, era l’ultima tappa del Magic Tour.
Freddie Mercury è stato un frontman d’eccezione, uno spettacolare show man, che concludeva i suoi concerti con tanto di corona, scettro e lungo mantello di velluto rosso. Ma osava indossare anche tutine aderentissime e scarpette da danza bianche nel mezzo di un concerto rock. Non importa come, lui esprimeva eccezionalità con ogni suo movimento.
Dallo spostarsi veloce da una parte all’altra del palco, all’usare il microfono a mezz’asta come una chitarra elettrica, al sedersi e suonare il pianoforte come se fosse stato il continuo del suo corpo. La sua passione si poteva toccare, vedere e sentire, trasudava copiosa da quella fisicità così forte.
The King of Pop, l’instancabile perfezionista, l’innovatore, “The dancer”, colui che con la sua danza ha sfidato anche le leggi della gravità. La meticolosa perfezione di ogni sua esibizione dal vivo, la grandiosità dei suoi show, (ha fatto arrivare sul palco dell’History Tour, 1996, un carro armato! E il suo Dangerous Tour, 1992, rappresentò il più grande e spettacolare live show mai pensato e messo in atto fino a quel momento) lo coronano come il più grande show man di tutti i tempi. Un’animale da palcoscenico, stare al cospetto di Michael Jackson durante un concerto, era come poter assistere a un qualcosa di magico, di quasi non terreno. I tour di questi due immensi artisti raccoglievano numeri spropositati di gente, come quello del Magic Tour, il 6 agosto del 1986 a Stevenage, UK, a cui parteciparono 240.000 persone o quello al Letna Park di Praga, nel luglio del 1996, dove arrivarono per vedere Micahel Jackson oltre 254.000 spettatori.
Oggi non è facile poter vedere esibizioni come quelle a cui ci avevano abituato da the King and the Queen, artisti capaci di muovere masse di fan isterici, di creare stili di vita, di pensiero, di fare battere il cuore, di cancellare le barriere di razza, sesso, religione. Quello che, in generale, si sente oggi, manca di un elemento fondamentale che invece ha contraddistinto questi due grandi artisti: l’amore. La passione che fa vibrare la voce, il corpo, il cuore dei fan. Oggi il mondo ha un bisogno tremendo di provare amore, ma quello vero, non sofisticato per esigenze di copione, quello che è capace di cancellare qualsiasi barriera. E quando un artista riesce a togliere di mezzo l’ego ed essere squisitamente se stesso, attraverso la musica, in qualche modo trova la via dell’immortalità.
Questa è una delle motivazioni per cui i fan del Re e della Regina sono ancora oggi un popolo di autentici affezionati. Il biopic Bohemian Rapsody ha rappresentato un risveglio di massa sul pubblico come anche l’impennata di vendite degli album di Michael dopo la sua morte. Stime parlano che il Re del Pop abbia superato il miliardo di copie, una cifra indicibile, impensabile per qualsiasi altro artista vivente o non.
Nel 1980 the King and the Queen erano impegnati su due canzoni che sarebbero diventate leggende: “Another one bites the dust” e “Billie Jean”. Provate ad ascoltarle, prima una e poi l’altra. Un giro di basso molto simile, la stessa chitarra, Michael potrebbe eseguire la famosa coreografia di Billie Jean sulle note di Another one bites the dust.
Fonti dicono che Freddie fosse tremendamente insicuro a fare uscire sul mercato la canzone come singolo: era un qualcosa di piuttosto nuovo, che si discostava dai suoni classici dei Queen. Allora si confrontò con Jackson, che, ascoltata la canzone, gli disse che doveva pubblicarla, che il singolo sarebbe stato un grande successo. Michael e Freddie non si può dire che fossero amici, ma si rispettavano molto, artisticamente parlando. Sempre in quel periodo hanno inciso un paio di canzoni insieme. Si tratta di There must be more in life than this,, cantata in duetto, e suonata al pianoforte da Mercury. Esiste anche un demo in cui la canzone è interamente cantata da Michael; e State of shock, inizialmente era stata registrata con Freddie Mercury ma poi pubblicata nel 1984 in duetto con Mick Jagger, nell’album Victory dei Jacksons.
Due artisti che hanno sempre utilizzato un approccio positivo nei confronti della vita, ma di certo, con la loro musica, hanno espresso una differente spensieratezza. Se non nell’ultimo periodo della loro carriera, non si trovano brani cosiddetti impegnati nella discografia dei Queen: come Mercury ha dichiarato più volte lui preferiva scrivere canzoni immediate, brani da “vivere” al momento per tutto ciò che potevano dare, per fare divertire e provare emozioni. We will rock you, si può considerare il sunto della sua filosofia.
Con la crescita sia personale che professionale, possiamo trovare The miracle, Innuendo e soprattutto l’album Barcellona (1988) dove molte canzoni offrono anche un messaggio da comprendere oltre al divertimento puro e al piacere di una ottima musica. Al contrario, Michael Jackson, ha sempre voluto esprimere punti di vista molto forti nelle sue canzoni, che molto spesso sono diventate dei veri e propri inni di pace, fratellanza e amore. Man in the mirror, Heal the world, We are the world, What more can I give, solo per citarne alcune. La più che attuale Earth Song (1995), che dovrebbe essere la colonna sonora dei problemi climatici di questi tempi, tutti dovrebbero vedere quel video e ascoltare la voce di Jackson, che esprime l’urlo disperato di una Madre Terra che sta morendo. Un brano poco conosciuto al grande pubblico, ma terribile e spiazzante, è Morphine (1997). È una delle canzoni più oneste e adulte della creatività di Michael e della sua esperienza con la dipendenza da farmaci. E’ pregna di sentimenti come la vergogna, disgusto di sé, il senso di colpa, le bugie.
Michael Jackson e Freddie Mercury erano accumunati dallo stesso disprezzo per i paparazzi e i tabloid in generale. Guarda caso, entrambi sono stati affossati e criticati più volte dalla stampa. Per molti anni le testate giornalistiche inglesi ha perseguitato i Queen, screditando la loro professionalità e la loro musica. Quello che i tabloid hanno fatto e continuano a fare oggi, post mortem, a Michael Jackson è risaputo, con lui sono sempre andati oltre il gossip, arrivando ad inventarsi le notizie, e continuare a screditarlo solo per vendere copie, senza nessuna evidenza o prova tangibile. Il suo urlo è rimasto inascoltato per troppo tempo, anche, come ha dichiarato Madonna dopo la sua morte, dai colleghi musicisti. “Lo abbiamo abbandonato”, ha detto.
Dal canto suo, in ogni album, a partire dagli anni ottanta, non c’è stata canzone in cui Michael Jackson non abbia chiesto alla stampa, ai paparazzi, di lasciarlo in pace. Leave me alone, Why you wanna trip on me, Scream, Money, Is it scary, Privacy in cui il King urla la sua rabbia. Anche il cortometraggio “Ghosts” presentato al Festival di Cannes nel 1997, dove dice la sua anche a proposito del razzismo: in una bella e normale comunità bianca, abitata da “persone normali” che rifiutano il diverso, arriva lui, Michael, considerato il freaky boy, il mostro. Ma sarà veramente così? O sono solo i fantasmi di un retaggio culturale che agiscono meccanicamente sui nostri comportamenti? Il sincaco di “Normal Valley”, sempre interpretato da Michael con un trucco di scena stupefacente, è un chiaro riferimento a Thomas W. Sneddon, il procuratore distrettuale di Santa Barbara che lo ha perseguitato per sei anni, prima, durante, e dopo il processo, alla ricerca di prove sulla presunta pedofilia che non sono mai state trovate. Da nessuna parte.
Freddie Mercury sopportava le interviste se duravano meno di dieci minuti, dopodiché liquidava i giornalisti. Le interviste concesse da Jackson si possono contare sulla punta delle dita, ma ciò non ha impedito ai paparazzi di riuscire nel loro subdolo intento: propinare la loro immondizia per anni.
Nel 1992 Michael ha sopportato uno dei periodi più strazianti della sua vita: le accuse di molestia su minore. Il “Dangerous Tour” è stato interrotto. Quando è venuto a conoscenza delle accuse dei Chandler (che poi, anni dopo, hanno ritrattato, scusandosi) si trovava in Russia, e ha composto la canzone Stranger in Moscow, pubblicata anni dopo sull’album History. “poi il ragazzo ha fatto il mio nome”, recita una strofa e si percepisce tutta la desolazione e il gelo che deve avere provato il cantante, che tra mille difficoltà fisiche e psicologiche, vedendosi voltare le spalle anche dagli amici più cari, con la stampa di tutto il mondo contro, ha avuto la forza di reagire, ritornando solo pochi anni dopo con un doppio album strepitoso, History, rifacendosi una vita, una famiglia, diventando padre di due bambini. Ci hanno provato di nuovo nel 2005, e Michael Jackson ha affrontato un processo atroce, un circo mediatico senza ritegno e senza precedenti, dato colpevole senza beneficio del dubbio, sbattuto sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo e additato come mostro, ma uscendo completamente innocente da tutti i quattordici capi d’accusa, nel silenzio generale della stampa, che non ha avuto la cortesia di ritrattare nemmeno davanti alla verità.
Credo che questi due artisti meritino invece, in primis, grande rispetto e onore. Perché hanno saputo donare al pubblico una goccia d’immortalità. Onore al Re e alla Regina, onore alla loro arte, alla loro forza, al loro amore. Alla loro musica immortale.
Onore al Re e alla Regina!
Articolo del
06/03/2019 -
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