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Il giovane Juan Olivier si accinge a prendere servizio come guarda carceraria nel penitenziario spagnolo di Zamora; il giorno prima del suo primo giorno di lavoro, per fare una buona impressione con i suoi futuri colleghi, decide di recarsi nel penitenziario e conoscere in anticipo almeno le fondamentali dinamiche carcerarie di cui potrà farne tesoro. Pessima idea, perché proprio quel giorno scoppia una violenta rivolta guidata dal boss del carcere Malamadre. Il giovane Juan, ferito accidentalmente da un calcinaccio caduto dal muro, si ritrova svenuto e abbandonato nella cella 211, e immediatamente comprende che la sola speranza di salvarsi che ha è di fingersi un detenuto appena arrivato e ferito dalla violenza delle guardie che lo hanno arrestato. La nuova identità servirà non solo ad ingannare i detenuti, ma soprattutto svelerà una personalità del tutto sconosciuta a quel ragazzo perbene, premuroso marito e futuro padre, che Juan è stato finora. E da quel momento scoprirà che l’istinto di sopravvivenza, anche nella persona più ordinaria e pacifica, può portare ad una carica di violenza sconosciuta anche a chi di quella violenza né è l’ignaro contenitore.
Il film, ottimamente girato, nonostante sia un film di genere, offre non soltanto buoni spunti di riflessione, ma soprattutto impone allo spettatore domande che tutti, in una società che voglia chiamarsi “civile” debbono porsi.
Intanto, siamo sicuri che tutti i cattivi sono quelli “dentro” e tutti i buoni sono quelli “fuori” che li giudicano, e che decidono del loro destino, del loro trattamento, della loro dignità? Siamo poi certi che possiamo trattare i cattivi tutti allo stesso modo? O anche tra i cattivi sarebbe opportuno operare le dovute distinzioni, cosi come tra i buoni non tutti sono buoni allo stesso modo? Siamo certi che il carcere, che dovrebbe avere anche una funzione “rieducativa” dell’individuo socialmente pericoloso, riesca attraverso meccanismi troppo spesso perversi, a svolgere quella funzione e non invece a svolgerne una esattamente contraria, e cioè quella di rendere anche l’individuo più pacifico un pericolo assassino, perché inserito in un contesto disumano? E siamo certi che sia sufficiente togliere “quella mondezza umana” dalle strade della nostra convivenza civile per poter dire di vivere in una società più sicura?
Alcune risposte a queste domande il film ce le offre. Perché ad esempio il boss Malamadre, artefice della rivolta e delinquente comune, è diverso dai terroristi dell’ETA, l’organizzazione basca temutissima all’interno delle carceri spagnole e di fatto protetta dalle autorità carcerarie proprio per la sua strategia che colpisce nel mucchio e dunque incontrollabile (magistrale a questo proposito il diverbio tra Malamadre e il capo dei terroristi baschi, ove proprio per rivendicare la differenza tra le due illegalità il primo dice all’altro: «tu sei capace di uccidere solo con le bombe e da lontano, io ti strappo le budella e te le metto in mano»). E soprattutto, nella sua malvagità e nella sua connotazione più violenta, Malamadre è persona leale, che ancora crede nell’amicizia, nella trasparenza, nel rispetto per una donna incinta. Mentre la fuori, a trattare con loro, ci sono persone che non hanno valori, che non rispettano le regole, che non hanno pietà nell’usare violenza anche verso quella donna incinta che il temuto delinquente non toccherebbe neanche con un dito...
Sebbene sia un film dai forti connotati spagnoli che dimostra la buona vitalità del cinema iberico anche quando affronta tematiche importanti (il tema politico non è semplicemente accennato), lo si può tranquillamente esportare in molte altre realtà, come quella italiana (soprattutto in virtù degli ultimi accadimenti di violenze e morti nelle nostre carceri). Splendido affresco, dunque, di una realtà, quella carceraria, che è metafora della società in generale; quella società che attraverso le sue strutture educative e rieducative dovrebbe sforzarsi di creare dei contesti civili dove possano essere smussate in maniera dignitosa le differenze che esistono tra gli uomini, cercando di incanalare queste differenze verso un percorso di vivere comune ove la violenza e la sopraffazione dei più forti sia sempre combattuta e condannata, che si sia carcerati o carcerieri. Altrimenti, anche da semplici spettatori di quell’inferno proposto da Cella 211, potremmo certo provare orrore per le condizioni disumane in cui vivono questi “rifiuti” delle nostre società e considerarci fortunati per stare al di qua delle sbarre. Ma capiremmo anche che le sfumature dell’animo umano sono troppo complesse per essere rinchiuse dentro quattro mura, e che non sempre coloro che controllano quelle mura sono esenti da colpe e sono uomini migliori degli abitanti di quell’inferno.
VOTO: 4/5
Articolo del
29/04/2010 -
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