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C’era una volta, nel cuore di Roma, una piccola scuola materna che accoglieva bambini di ogni razza e colore, prevalentemente figli di immigrati ma non solo; c’era un gruppo di maestri che in questa scuola avevano portato avanti per quei bambini un percorso educativo alternativo, che poneva l’integrazione come tema centrale senza che in realtà nessuno si sentisse diverso; c’era un babbo natale che non aveva le sembianze del nostro Santa Claus, ma era sdoppiato e parlava una lingua inizialmente diversa, ma nessuno dei bambini se ne accorgeva perché loro parlano una lingua universale... C’era una volta, c’è ancora e, ce lo auguriamo, ci saranno sempre...
Potrebbe sembrare una bella favola, ed in effetti lo è. Ma è soprattutto realtà, perchè quello che Edoardo Winspeare (Sangue vivo, Il miracolo, Galantuomini) racconta in questo suo nuovo docu-film è storia assolutamente vera, con bambini veri ed insegnanti veri, ripresi nel loro quotidiano durante un intero anno scolastico ove il percorso formativo programmato dagli insegnanti coinvolge non solo, ovviamente, i bambini, ma anche e soprattutto i genitori. E’ infatti questa una impostazione fondamentale per affrontare le diversità socio-culturali in quel microcosmo estremamente eterogeneo. Il programma scolastico, parallelamente a quanto viene insegnato ai bambini, parte da un “gioco” proposto ai genitori, nel quale ognuno di essi deve parlare per qualche minuto con quello che conosce meno; e poi, davanti a tutti gli altri, deve raccontare le informazioni raccolte dal dialogo con l’altro immedesimandosi in lui. Dunque, conoscenza dell’altro, prima di tutto: perché solo con la conoscenza si abbattono le barriere della paura; solo con lo sguardo sul mondo che modifica il “nostro” punto di vista si accettano le diversità. E poi un ammonimento: gli adulti sono stati bambini, ma bisogna dimostrarlo, perché è questo che ai bambini piace. E per questo nel film prendono corpo degli splendidi flashback fotografici dei protagonisti, che danno l’esatta percezione di come non solo tutti noi siamo stati bambini, ma soprattutto di come tutti noi da bambini abbiamo amato e desiderato le stesse cose, indipendentemente dalle nostre radici o dalle nostre collocazioni sociali.
Gli aspetti che vale la pena sottolineare, e che il film evidenzia con pacata e civile determinazione, sono almeno due. Il primo è che per fare una buona scuola pubblica non necessariamente servono grossi investimenti: la si può fare con poco, ma almeno quel poco deve essere concesso, ed i continui tagli di fondi all’istruzione non aiutano certo anche i validissimi e volenterosissimi maestri del Celio Azzurro (questo il nome della scuola materna romana ove è girato il film) ad andare avanti senza dover affrontare mille problemi e a dover mettere toppe (non solo metaforicamente) su una struttura che altrimenti potrebbe diventare fatiscente. La passione e la buona volontà sono necessarie, ma non sufficienti. E sotto questo aspetto una società che non investe nuove risorse (anziché tagliarle) sulla scuola pubblica è una società che non ha capito il momento storico in cui stiamo vivendo ed è una società che non può avere futuro. In secondo luogo l’integrazione è sì un tema centrale del nostro tempo, ma che lo si voglia o meno è oggi un processo irreversibile, che nessuno può neanche lontanamente pensare di fermare, né blindando le nostre coste né immaginando demagogicamente scuole dove ci siano un numero limitato per classe di bambini stranieri. Sotto questo aspetto il film di Winspeare è davvero prezioso, perché è una precisa testimonianza di come solo attraverso un tipo di percorso didattico, come quello che da circa venti anni è sperimentato dal Celio Azzurro, si può rendere la diversità un valore, si può fare dell’integrazione una ricchezza, si possono rendere gli adulti di nuovo bambini. Perché, e questa è una chiave di lettura assolutamente condivisa da chi scrive, il vero problema di tutti gli aspetti di razzismo e di integrazione sono gli adulti, dato che i bambini, nel loro stare insieme, non avvertono minimamente le diversità. Diventa allora fondamentale lavorare sui genitori più che sui figli, diventa necessario staccare quel cordone ombelicale che spesso li tiene legati in maniera quasi ossessiva (geniale a questo proposito la settimana estiva a Sperlonga proposta dagli insegnati del Celio, dove per cinque giorni i genitori non possono sentire neanche telefonicamente i propri figli, che accettano senza problemi questo distacco forzato); diventa necessario far capire ai genitori che educare i propri figli non significa trasmettergli ed imporgli le proprie passioni, ma significa invece lasciar loro scegliere e capire quali vocazioni essi sentano come proprie.
C’era una volta, dunque, una stella polare: e sapete qual è la stella polare? Quella con gli orsi! Fantasia infantile? Forse. Ma se non torniamo a parlare anche noi adulti quel linguaggio fantasioso, ingenuo e trasparente dei bambini che abbiamo davanti e dei bambini che siamo stati, non solo non avremmo più la capacità di poter affrontare i problemi con un sorriso, ma non avremmo neanche la capacità di poter inventare favole per i nostri figli. Favole inventate, o favole vere, come quella, splendida, della scuola del Celio, nel cuore di Roma.
VOTO: 4/5
Articolo del
03/05/2010 -
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