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In un piovoso venerdì pomeriggio è d’obbligo accalcarsi in un cinema del centro della capitale per assistere ad uno degli eventi cinematografici della stagione: la prima di Kill Bill vol. I, l’ultima opera del genio Quentin Tarantino. Genio sì, sotto molti punti di vista: tecnica narrativa (uso creativo del flash-back), registro linguistico (linguaggio “popolare” ma mai artificiosamente cinematografico), scelta degli attori (recupero di vecchie glorie ed esaltazione dei ruoli minori), colonna sonora (fusioni micidiali di inediti e revival anni ’70), miscuglio di generi (dal melodramma alla farsa, dall’action movie al sentimentale, con incursioni bellissime nel mondo dell’animazione) sono solo alcuni dei punti di forza di un regista che non ha solo (re)inventato un genere (il pulp) ma anche fatto da battistrada per un più ampio rinnovamento del cinema, fuori e dentro generi diversi. Kill Bill non smentisce la tendenza, semmai fa gridare meno al miracolo o al capolavoro, attestandosi comunque su un buon livello quanto al prodotto cinematografico d’insieme. In buona sostanza, la prima parte del film colpisce per il consueto talento narrativo e figurativo del regista, con sequenze di immediato impatto sullo spettatore: ironia, miscuglio di generi, recitazione perfetta, colonna sonora coinvolgente e suggestiva sono gli elementi distintivi di quello che, una volta, si chiamava “primo tempo”. Su tutto e tutti, poi, Uma Thurman: bellissima e azzecatissima nella parte (come sempre, peraltro), anche nell’esecuzione affascinante delle scene di combattimento: i mesi spesi nell’attesa del termine della gravidanza dell’attrice non sembrano essere trascorsi invano! Una sequenza su tutte: l’arrivo inaspettato della bambina nel corso del furibondo combattimento all’arma bianca tra le due ex compagne di (s)ventura. La seconda parte del film, invece, finisce col gingillarsi un po’ troppo nella didascalica esaltazione delle doti guerriere della protagonista: intendiamoci, forse questa parte, secondo i fan sfegatati del regista, è proprio la migliore del film, la più tarantiniana nella accezione più ampia del termine (un po’ alla Rodriguez ovvero “Dal tramonto all’alba”); ad altri spettatori, di più “laica” concezione (nel senso di minore affezione morbosa al regista), può apparire persino un po’ noiosa, se non fosse per le solite invenzioni stilistiche (il passaggio dal bianco e nero al colore e dal colore a scene monocromatiche in silhouette, oltre alle incursioni meravigliose nella animazione) o per le consuete gag (come quando la protagonista consente alle innumerevoli vittime della sua lama di andarsene, fatta eccezione per gli arti mozzati, ormai di sua proprietà!). Insomma, il film è obiettivamente ben fatto, si fa vedere e sentire con vero piacere, anche se non credo possa essere considerato un autentico capolavoro: è un po’ come un quadro di Kandisky (e lo sono, forse, tutti i film di Tarantino), non si sa bene cosa voglia significare o dove voglia condurci ma è comunque bello a vedersi! Alcuni consigli per una proficua e duratura visione (in attesa del volume II, peraltro già girato…). Colonna sonora:una straordinaria versione di “Bang Bang”, cantata da Nancy Sinatra (che apre il film) e uno straordinario gruppo giapponese, le Woo Hoo, che delizia le sequenze di combattimento in terra nipponica; immagini: i ray-ban allineati sul cruscotto dello sceriffo, la struggente pioggia di sangue dal materasso nel prezioso flash-back a cartoni animati.
Articolo del
30/10/2003 -
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