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Cambiamenti climatici tanto forti da offuscare il sole e generare una quasi era glaciale, terremoti continui che sconquassano la terra ed abbattono ad uno ad uno i pochi alberi ancora rimasti in piedi, ogni specie animale scomparsa, tranne quella umana che è riuscita a salvarsi dall’estinzione con pochissimi individui, ridotti allo stremo delle forze, al cannibalismo, all’organizzazione della specie umana in bande armate che cercano disperatamente di trovare cibo o vestiti in quel che resta di ciò che una volta erano le terre felici degli Stati Uniti d’America. La fine del mondo tanto immaginata, prevista, ideata in tutte le salse sembra essere arrivata. In questo scenario apocalittico assistiamo all’angosciante viaggio verso la costa di un padre e un figlio, miracolosamente rimasti vivi in un mondo da day after che di vivo non ha ormai quasi più nulla. Ma a chi, se non al bambino, simbolo del futuro e della possibile rinascita del genere umano, toccherà resistere per ridare speranza alla continuazione della nostra specie? Padre Viggo Mortensen cercherà quindi di difendere strenuamente suo figlio, più che se stesso, dal freddo e dalla fame, dai continui attacchi di quei sopravvissuti divenuti ormai “cattivi”, convincendolo (sempre meno) che loro sono “i buoni”, che mai mageranno i loro simili anche se dovessero morire di fame. E così sappiamo che, nel caso padre Viggo riesca nel suo obiettivo di salvare almeno la vita di suo filgio, in un prossimo mondo post-apocalittico comunque ci saranno i buoni. Almeno cosi siamo più tranquilli...
Film cupo, angosciante, tratto dall’omonimo libro di Corman McCarthy che in realtà ha genitori ancor più anziani ed illustri in quello che fu uno dei primi libri di questo genere e che proprio da poco è stato ripubblicato da Adelphi: La peste scarlatta, di Jack London. Il film dunque ripropone quelle tematiche che già in quel filone letterario sono state tracciate con più o meno pessimismo. Il quadro che viene fuori, in questa versione trasbordata sul grande schermo dal regista John Hillcoat è, a ben guardare, un mondo non molto diverso da quello che ben conosciamo. Perché, ad esempio, le donne sarebbero le prime vittime della violenza maschile, sessuale ma non solo; poi ci sono i bambini, che solo un amore paterno (quello materno non ne garantirebbe la sopravvivenza per il motivo suddetto, cioè quello della violenza maschile) può difendere fino alla morte perché solo attraverso quel codice genetico potremmo essere certi di proseguire la nostra specie anche in un mondo dove noi non ci saremo. Poi ci sono i vecchi (straordinario, a questo proposito, il cameo di Robert Duvall), che hanno esperienza da vendere ma il destino segnato. E poi, dulcis in fundo, c’è sempre la famiglia, unico vero nucleo (con tanto di unico cane sopravvissuto) completamente autosufficiente per poter rigenerare la specie umana perché è solo lì che l’uomo non è più ne buono ne cattivo, ma è equilbrato e pertanto sarà in grado di ritrovare “la strada” per una nuova umanità.
Cosa c’è, dunque, di diverso in questo nuovo mondo? Nulla. Gli animali, che nel nuovo mondo sono scomparsi, stanno effettivamente scomparendo dal nostro mondo. Le bande di criminali del nuovo mondo sono da tempo già operanti ed efficaci nel nostro mondo, ed allegorie per il cannibalismo metaforico del film ne potremmo trovare centinaia, nella nostra realtà. Quanto ai vecchi e alle donne le loro condizioni descritte nel film non sembrano essere molto diverse da quelle che già vivono nel nostro tempo, e quanto ai bambini chi potrebbe negare che sono l’ancora di salvezza del futuro, di qualsiasi futuro si voglia immaginare? Ma è tutto troppo scontato: e nonostante i temi e la drammaticità delle situazioni narrate con uno stile di regia asciutto ed essenziale, il film non emoziona. E a tutte quelle domande che spesso ci facciamo, su come sarebbe il mondo “il giorno dopo” forse ci dà risposte che già sapevamo.
VOTO: 2,5/5
Articolo del
03/06/2010 -
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