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Ettore Scola appartiene alla ristretta schiera di autori ai quali spetta il titolo di maestro. Maestro di un genere che, per quel che valgono le definizioni, è famoso come commedia all'italiana, prevalentemente comico ma capace di offrire, e particolarmente in Scola, una sintesi felice fra registro comico e storie dal contenuto tragico. Oggi quel genere è finito, molti degli attori che l'hanno reso grande, purtroppo, non ci sono più, come non c'è più il pubblico per il quale quelle storie venivano scritte, dirette e interpretate. C'è ancora, e non c'era da dubitarne, la città di Roma, che a tanti di quei film faceva da sfondo; e ci sono ancora i romani, che spesso erano una sorta di personaggio collettivo che ogni tanto si materializzava con battute ustionanti, capaci di riportare brutalmente a terra chi tentasse di lanciarsi in voli più o meno pindarici. E Scola sembra quasi prendere atto della situazione, facendo un film sullo sfondo, su Roma e i romani, anziché raccontarci una storia di quelle che ci piacevano tanto. Eccoci dunque vagare per Roma, a bordo di tanti autobus guidati tutti da una giovane simile più ad una hostess che al tipico autista dell'Atac (che ha, lo posso garantire, un aspetto, dei modi e un sesso diverso da quello della gentile signorina dai lunghi capelli neri che dà sorridendo il 'buongiorno' al primo cittadino che sale a bordo). A voler essere pignoli, gli autobus sui quali Scola ci accompagna sono quelli delle linee centrali o semi-centrali della città, ignorando decine di luoghi e milioni di persone che vivono lontane dal Campidoglio o da piazza Navona (le cui immagini così ben fotografate finiscono per dare l'impressione di cartoline dalla città eterna). Ma anche così limitato, il viaggio trova materiale per decine di microstorie, che vanno dal comico al tragico con puntate nel tipico grottesco romano. Non che la scelta di raccontare Roma attraverso tante piccole storie sia una novità: anche Giuseppe Giocchino Belli, due secoli fa, eresse un monumento accatastando duemila sonetti da null'altro legati che dal romanesco in cui erano scritti. Ma, al cinema, il rischio è di fare qualcosa di più simile alle barzellette su Totti che ai sonetti del Belli, cercando una strada breve per l'effetto comico o tragico più che fare la fatica di suggerirci cosa può essere ciò che unisce il 'romano de Roma' all'immigrato che in pochi anni ha imparato a parlare e a ragionare come lui, o il ragazzino che crede di fare il romano perché scrive una parolaccia sull'autobus, e il vecchio romano che (con l'ultima apparizione del grande Fiorenzo Fiorentini) gli dimostra quanta poesia ci possa essere nelle parolacce quando nascono da una cultura volgare condivisa anziché dalla volgarità dell'omologazione televisiva. Di questo ci aveva parlato trent'anni fa Pier Paolo Pasolini, e da qui sarebbe dovuto forse ripartire Scola, da una Roma che passa attraverso l'omologazione e ne esce un po' cambiata e un po' no. Ma in questo il film non fa un passo avanti, dalla prima scena all'ultima; una legittima scelta d'autore, che però riduce l'opera ad un'esercitazione calligrafica, dove l'importante è raccontare bene più che il raccontare, finendo per dimenticare, come un pacchetto sull'autobus, il cinema che si potrebbe fare ricollegandosi alla tradizione italiana. Così che quando partono i titoli di coda, e qualcuno in platea applaude il maestro, a noi sembra invece di sentire una voce roca che dal fondo della sala domanda: "ahò, e quanno comincia 'sto firme?" ------------------------------------------------------------------------------------PS.>>Una precisazione storico-gastronomica: nell'episodio con Arnoldo Foà (probabilmente il migliore) si disquisisce sulla pasta all'amatriciana, sostenendo che la stessa va preparata col pomodoro, perché senza sarebbe 'alla gricia'. Si tratta di un errore, pur se comune nei ristoranti romani. L'amatriciana nasce ad Amatrice, sulla Salaria, dove si mangia nelle due versioni col pomodoro e senza; ed è probabile che, essendo la ricetta antica e l'uso alimentare del pomodoro relativamente recente, l'originale fosse bianca, condita con pecorino abbondante e accompagnata agli spaghetti prima che ai bucatini. La 'gricia' nasce a Roma dall'uso che avevano i norcini svizzeri originari del cantone dei Grigioni (donde 'gricia') di condire la pasta soffriggendo nel retrobottega varie parti del maiale. Per cui, fra l'altro, nell'amatriciana è essenziale il guanciale mentre per la gricia va bene anche la pancetta. Più che un'amatriciana senza pomodoro, la gricia può essere semmai considerata una 'carbonara' senza l'uovo (che altrimenti va sbattuto in fondo alla zuppiera dove buttare la pasta appena scolata).
Articolo del
10/11/2003 -
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