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Johnny Marco è un attore di cinema che vive all’hotel Chateau Marmont di Los Angeles, residenza di molte star hollywoodiane come lui. La sua vita sembra apparentemente perfetta: gira per le strade della California con la sua Ferrari, ha belle donne che conquista con una semplicità disarmante, e nell’universo del cinema è considerato una leggenda. In realtà quella perfezione è solo apparente: Johnny, in quell’universo, ci si muove silenzioso, apatico. Sembra andare lentamente alla deriva, vive quasi per caso in quel mondo ovattato ma sembra smarrito, depresso. Anche il sesso è qualcosa che lo svuota, e talvolta si addormenta sul più bello. E poi ha una figlia di undici anni che conosce pochissimo perché è stato un padre assente, e l’inaspettata permanenza di lei nella sua vita lo costringe a rivedere molte cose di sè. Ma le riflessioni a cui sarà spinto da quella temporanea convivenza con sua figlia non faranno altro che accentuare i suoi sensi di colpa e di frustrazione.
Dopo aver ottenuto grandi consensi con il precedente Lost In Translation, stavolta la Coppola sposta la sua macchina da presa da Tokio a Los Angeles, ma sostanzialmente il suo terreno di indagine rimane lo stesso. Così, dentro quel mondo perfetto di carta patinata che è la Hollywood del cinema e del suo entourage, con le sua note megalomanie e schizofrenie, Sofia riesce anche stavolta a scarnificare la solitudine, a raccontare luoghi e personaggi con non luoghi e con lunghi silenzi. I pianisequenza che lentamente si avvicinano al soggetto inquadrato e non viceversa sembrano entrare dentro l’anima dei personaggi, sembrano fotografarne i pensieri che quasi mai si traducono in parole. Sono grida silenziose quelle che la regista chiede alla recitazione dei protagonisti, sono ponti di comunicazione che un padre e una figlia provano a costruire, pur sapendo entrambi che forse è troppo tardi. Il tutto, poi, in quel contesto di massima finzione per eccellenza che è Hollywood.
Pertanto, volendo evidenziare i punti di forza del film ne dobbiamo elencare almeno un paio: la bravura della regista, che con rara capacità di dominare la macchina da presa, riesce da una parte a raccontare lo stato d’animo interiore dei due protagonisti su cui posa il suo sguardo; e riguardo a questo sono sicuramente notevoli la scena iniziale, con telecamera fissa e macchina del protagonista che gira su un circuito inquadrato solo in parte, e la scena in cui Johnny è in piscina e lentamente esce dall’inquadratura con il suo materassino. Dall’altra riesce a raccontare con altrettanta efficacia l’esteriorità quasi trash di festini, tette al vento e sesso facile di quella Hollywood che conosce molto bene e che tutti immaginiamo proprio cosi. L’altro punto di forza è la recitazione dei due protagonisti, che si fanno carico di una espressività che, sebbene spesso avvolta dal silenzio, sembra offrire allo spettatore la dirompenza di mille parole.
Detto dei meriti, però... sì, ci sono altrettanti però. Intanto il film si mantiene su una narrazione troppo lineare; non decolla mai, non succede praticamente nulla e in sostanza il film non emoziona. Poi il contesto raccontato sembra un po’ visto e rivisto, ed al di là dei meriti tecnici sopra evidenziati, una non storia non può fare grande un film. Un film che se non fosse stato firmato dalla figlia di uno dei più grandi registi di sempre probabilmente sarebbe passato inosservato e forse non sarebbe transitato per Venezia.
VOTO: 2,5/5
Articolo del
07/09/2010 -
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