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Dapprima una piece teatrale, poi un libro edito da Einaudi: ora Ascanio Celestini porta sul grande schermo la storia di Nicola, un giovane “disturbato” che, nato nei favolosi anni ‘60, frequenta quotidianamente il manicomio vicino casa accompagnando sua nonna che porta le uova fresche ai pazienti e va a trovare sua mamma lì ricoverata da anni. Storia apparentemente semplice, ma la genesi di questo lavoro ha radici complesse, in quanto Celestini ha raccolto nel tempo testimonianze di pazienti ed interviste di ex infermieri di manicomi, accumulando materiale documentale degno delle indagini più serie.
Il tema è quello della malattia mentale: ma in realtà la metafora che si cela dietro il visibile raccontato appare molto più ampia. Nel film di Ascanio non c’è giudizio su condizioni presumibilmente disumane in cui venivano trattenute le persone considerate “disturbate”; non c’è denuncia di palpabili orrori vissuti in non luoghi dove la sfera della razionalità doveva necessariamente convivere con quella della pazzia; non ci sono eclatanti gesta di persone che sono state escluse dalla società considerata “normale”. C’è un racconto fiabesco del quotidiano, di un quotidiano diverso, certo, rispetto a quello cui gli occhi e il cuore di molti di noi sono abituati a percepire. Ci sono filastrocche della nonna ripetute quasi in maniera ossessiva, c’è il desiderio di mettere ordine nella propria mente, perché se metti ordine ritrovi tutto, altrimenti non ritrovi più nulla; c’è la sensazione che quei meravigliosi anni ‘60 non siano stati così meravigliosi per tutti, ma che qualcuno ne sia stato escluso ed etichettato come diverso. C’è quella netta sensazione di rifiuto che culmina nel vomito quando proviamo ad ingozzarci con tutti quei prodotti inutili di cui siamo consapevoli consumatori. Ci sono le contraddizioni della mente umana, che cerca un ordine proprio come sono ordinati i prodotti che troviamo negli scaffali dei supermercati, ma che allo stesso tempo è sempre attratta da un desiderio di evasione dalle sovrastrutture imposte; come quei matti che tentano la fuga dal manicomio scavalcando novantanove dei cento cancelli che li circondano ma poi, stanchi, tornano indietro ripromettendosi di tentare il giorno dopo. C’è l’amore per sempre, che può renderci felici, ma c’è anche l’amore di un attimo, che può farlo in egual misura. Insomma è un essere complesso, l’uomo, che non si può semplicemente rinchiudere dentro istituzioni che, per ammissione dello stesso Celestini, “è criminale in sé come tutte le istituzioni totali”.
La macchina da presa indaga su una periferia di pasoliniana memoria, e penetra nel cuore dei personaggi con voce fuori campo che diventa flusso di coscienza, diventa sofferenza delle solitudini in cerca di un contatto, diventa drammaticamente ponte di comunicazione con l’alter ego del protagonista, che prova a ribellarsi e a sognare… Nonostante la grande capacità affabulatoria di Celestini, il film ha però un limite: commuove, coinvolge, ma non riesce a trasformarsi in un pugno allo stomaco, come imporrebbero la tematica trattata e i contesti raccontati. Forse perché questo lavoro è stato usurato dalla precedente piece teatrale e raccontato in forma di romanzo scritto. Rimane comunque un film da vedere, perché l’argomento è di quelli che fa discutere e il lavoro di preparazione prima e di realizzazione poi di Ascanio non possono essere banalmente liquidati come un film qualsiasi.
VOTO: 3/5
Articolo del
08/10/2010 -
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