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Rischio andando controcorrente, rischio criticando il lavoro di un mostro sacro del cinema contemporaneo, rischio giudicando male un prodotto comunque ineccepibile da un punto di visto strettamente tecnico, ma il punto è esattamente questo: Dogville parla alle elite (nonostante un finale divulgativo e quasi didascalico) mentre il cinema vero dovrebbe essere, per sua natura, popolare. Mi spiego meglio: il cinema come arte nasce per raccontare - con immagini, dialoghi e suoni - storie esemplari (per il loro carattere epico ma anche per la loro semplicità) ad un pubblico il più ampio possibile; non a caso le prime proiezioni vennero organizzate nelle piazze o nei teatri, per l’occasione aperti a tutti (o quasi). In questo senso si intendeva avvicinare il “popolo” e in questo senso ritengo che il cinema debba continuare ad essere arte “popolare”: non già arte di serie B condannata a raccontare storie pecoreccie o di sottofondo bensì arte per eccellenza condannata a scegliere moduli e stili narrativi alti ma non per questo incomprensibili ai più. Dogville sceglie di ritirarsi in una gabbia dorata costruita ad arte dal regista, abbandona l’abbraccio corale di Dancer in the dark (comunque narrativo, seppur in un modo originalissimo), rinchiudendo un pugno di bravissimi attori in un palcoscenico semibuio e surreale e vincolandoli ad un intreccio narrativo esemplare e pretestuoso allo stesso tempo: lo ammetto, pur essendo abituato a fatiche cinematografiche non indifferenti (tra le quali annovero con orgoglio Lanterne rosse in lingua originale) la prima ora di film mi è risultata quasi insopportabile (e per fortuna in Italia è stata distribuita una versione ridotta!). Per il resto, la fotografia è suggestiva, gli attori perfetti, l’uso “dogmatico” della steadycam estremamente coinvolgente, la morale sin troppo chiara (un apologo sulla genesi della vendetta personale e sociale, sui falsi moralismi, sulle perverse dinamiche sociali, sulle ambizioni devianti, sulla condizione umana nonché un seguito ideale al precedente lavoro del regista, suggellato da una sigla di chiusura – unico momento musicale del film, nel solco della impostazione teorica elaborata dal regista – con “Young Americans” sin troppo esplicativa…). Un film sicuramente ben costruito, ben realizzato ma anche egoisticamente fine a se stesso!
Articolo del
17/11/2003 -
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