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Di certo l'ultima fatica di Jim Jarmusch di limiti a spunti interpretativi non ne pone. Basta soffermarsi al titolo e da qui vagliare le possibili declinazioni che la pellicola assume, a seconda dell'ottica con cui lo si osserva, per rendersene conto. Il sicario senza nome, l'impassibile, taciturno al “limite” dell'autismo, l'inesorabile Isaach De Bankolé, vive secondo un codice autoimpostosi – come Forest Whitaker in Ghost Dog – grazie al quale irregimenta e scandisce l'intera giornata. Il riposo in veglia completamente vestito, gli esercizi di rilassamento, i due espressi bevuti al bar della città ove le necessità lavorative l'hanno condotto. Una routine consolidata atta al conseguimento del proprio obbiettivo, al di là, o a scapito, del coinvolgimento emotivo o intellettuale. A questo proposito falliscono le testarde avance di una ragazza discinta, così come le elargizioni culturali in pillole fornite dai numerosi informatori che lo conducono sul sentiero verso la preda. Eppure l'arte, l'architettura, la poesia sembrano scalfire quel muro adamantino e impenetrabile che il killer erige a propria difesa. Fin dove arriva la padronanza di sé, dove il proprio autocontrollo?
Tuttavia, quando sembrava che i fantomatici limiti del titolo si riferissero al protagonista, ecco sopraggiungere una seconda chiave di lettura. Scena finale. Il tanto atteso confronto tra vittima e carnefice arriva. Senza rivelare troppo, l'obiettivo designato del protagonista è un non meglio precisato capitalista industriale plutocrate con le fattezze di Bill Murray. Guardacaso l'attore che in Broken Flowers interpreta un bolso Don Giovanni alla ricerca del figlio mai conosciuto, ora veste i panni dell'uomo inseguito e ricercato. Il suddetto uomo d'affari accusa il sicario di essere ubriaco d'arte, musica e filosofia, alla stregua dei bohemién. Ma prima o poi è necessario scendere a compromessi con il mondo “reale”. Un'invettiva che forse Jarmusch ha dovuto subire di frequente durante la propria carriera. Ecco che il duello si traduce perciò nella messa in scena dell'eterna lotta fra le esigenze artistiche dell'autore e quelle produttive, dello show business. Chi detiene il controllo sull'opera d'arte? L'artista o il committente? E si potrebbe continuare con l'esercizio interpretativo. La scansione episodica, per esempio, che, oltre a riprendere una struttura cara al regista, sottolinea la vanità di una certa tipologia di narrazione. Come a dire che nel seguire pedissequamente le regole di un genere si finisce con lo scadere nella reiterazione più arida. E guardando la pellicola, come dargli torto?
Scarabocchi analitici? Conclusioni prestestuose? Forse. Ciò che rimane, a prescindere dai vezzi critico–esegetici, è la sensazione che Jarmusch abbia smarrito la bussola, o il controllo, tanto per rimanere in tema di ripetitività. Il sicario senza nome, come s'è detto, riceve informazioni di fronte ai due espresso canonici da avventori di passaggio piuttosto stravaganti. Sistematicamente costoro rivolgono una domanda fatidica al protagonista: «Non parli spagnolo, vero?». Quando per la quinta volta la stessa scena si ripropone, sebbene con le dovute modifiche, anche il più irriducibile estimatore di Jarmusch avvertirà una leggera sensazione di stucchevolezza. Insomma, questa beffarda insistenza nei confronti del già visto innerva l'intero film, pregiudicandone di fatto non il ritmo, quanto la bontà dell'assunto originario. L'idea di base, infatti, che avrebbe trovato maggiore compiutezza nella forma del cortometraggio, perde consistenza nel corso di un'ora e quaranta minuti decisamente eccessivi. Più che limiti di controllo si potrebbe parlare di limiti di intuizione.
VOTO: 2,5/5
Articolo del
15/11/2010 -
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