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Anton (Mikael Persbrandt) è un medico che opera in Africa, in un campo di rifugiati. In Danimarca lo aspettano la moglie Marianne, da cui si sta separando, e i due figli, Elias e Morten. Elias (Markus Rigaard) è vittima di episodi di violenza a scuola. Claus (Ulrich Thomsen) è un professionista di Londra. Dopo aver perso la moglie, morta di cancro, torna in Danimarca con il figlio Christian (William Johnk Nielsen) e si stabilisce nella grande casa in campagna della madre. Elias e Christian diventano amici. Il loro legame li porterà a mettere in pericolo la propria vita.
La più popolare regista scandinava torna con un film rigoroso, teso e coraggioso, una storia incentrata sul tema della vendetta. Tutti i personaggi sono alle prese con un grande dolore e uno sconfinato senso di solitudine. La loro condizione li porta a fare scelte difficili, spesso prese in una frazione di tempo molto breve. Christian mette fine alle angherie subite da Elias a scuola piccchiando e minacciando il più violento dei compagni. In Africa, Anton è alle prese con un omicida che apre il ventre delle ragazze incinta dei villaggi circostanti. Quando torna in Danimarca non riesce a far fronte ai problemi di Elias e alle difficoltà con la moglie, che non può perdonargli una passata relazione extraconiugale. Christian non riesce ad affrontare la perdita della madre e si chiude nell’ostilità verso il padre. Lo accusa di essersi arreso, di aver desiderato la morte della moglie. Malgrado la difficolà a comunicare e il rifiuto oppostogli dal figlio, Claus cerca di essere presente nella vita di Christian. I due bambini, ansiosi di svincolarsi dalla protezione dei propri genitori e forti del reciproco appoggio, si spingono nel territorio della violenza: si vendicano di un uomo che ha ingiustamente schiaffeggiato Anton preparando un ordigno da posizionare sotto la sua auto.
Scena per scena, il film è costruito per portare al massimo la tensione e scioglierla con la catartica resa dei personaggi. Ogni azione potrebbe portare alla catastrofe, ma lo sguardo della regista non spinge, e permette ai propri personaggi di trovare una misura capace di portarli lontano dal punto di non ritorno. Malgrado la violenza sia ovunque e possa scoppiare in ogni momento, lacerando corpi e comunità, in Africa come nella ricca Danimarca. "A volte quando muore una persona amata, il velo che c’è tra noi e la morte si alza. E tu vedi la morte. Poi però il velo torna al suo posto", dice Anton alla fine del film. Il velo è un ventre squarciato, il velo è il cornicione del serbatoio da cui si vede tutto l’orizzonte e da cui è così facile buttarsi. E’ la lama di un coltello, il tempo tra l’accensione della miccia e l’esplosione dell’ordigno. Il velo è il confine incerto di una scelta. E’ la follia di un pensiero che prende forma nel tempo e si sostituisce alla realtà.
Il cinema della Beir si tiene lontano da effetti speciali e virtuosismi di ogni sorta. E’ un cinema che parla ad un pubblico vasto, attraverso la rigorosa costruzione di scene e personaggi. Gli attori sono magistralmente diretti, il senso di verità che portano nella storia è dato dall’ampio margine di non detto, dalle impercettibili sfumature di una bugia, una deviazione, un segreto.
Malgrado lo scioglimento finale sia uno svuotamento non proporzionato alla tensione raggelante di tutta la pellicola, la regista riesce a non spegnere le domande, a tenersi lontana dalle risposte. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival Internazionale del Film di Roma.
VOTO: 3,5/5
Articolo del
07/12/2010 -
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