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Yulia è una ragazza dell’est emigrata in Israele, a Gerusalemme, e qui ha trovato lavoro come addetta delle pulizie in una grande azienda che produce pane. Yulia è una dei tanti nessuno che rimangono tali anche dopo morti. Ed infatti, quando rimane vittima accidentale di un attentato al mercato, il suo corpo rimane all’obitorio per due settimane perché non la cerca nessun parente, nessun amico. Sappiamo della sua morte solo perché sul suo corpo viene rinvenuta la cedola con la matricola della busta paga dell’azienda presso la quale era impiegata, e perché un giornalista d’assalto coglie al volo l’occasione per accusare quella azienda di crudele mancanza di umanità. Toccherà al responsabile delle risorse umane preparare la replica per l’articolo che uscirà sui giornali, e questo compito lo costringerà ad indagare su chi fosse quella sua risorsa, che ovviamente non conosceva o non ricordava, nonostante appunto quel suo ruolo di responsabile che avrebbe dovuto presupporre una conoscenza di tutti i dipendenti di quella azienda.
Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua, il film affronta tematiche importanti e complesse che, per come vengono raccontate, si prestano a diversi piani di lettura. Il primo è quello della non identità: le grandi e piccole migrazioni che stanno caratterizzando il nostro tempo pongono il problema della “collocazione umana”: siamo numeri, spesso, e come i numeri non abbiamo identità, non abbiamo volto, non abbiamo mondi che ci appartengono. E per sentirsi in questa condizione l’ambientazione e il contesto (Gerusalemme e l’attentato) potrebbero essere uno sfondo casuale. Quella stessa estrema solitudine di Yulia è la stessa che potrebbe provare un qualsiasi immigrato in un qualsiasi paese occidentale. Anzi, è quella stessa estrema solitudine che spesso proviamo nelle dinamiche del nostro vivere quotidiano e soprattutto nelle dinamiche del lavoro in una qualsiasi grande azienda.
Quando poi il responsabile delle risorse umane intraprende il lungo viaggio verso un villaggio sperduto della Russia per riportare il corpo di Yulia nella sua terra per una degna sepoltura che può essere autorizzata solo dalla nonna, il film si trasforma in un road movie e offre allo spettatore un secondo piano di lettura: quello della ricerca delle radici, non solo geografiche (quelle di Yulia) ma soprattutto quelle umane dei personaggi che fanno parte della (buffa) spedizione. Ognuno (il marito di Yulia, il figlio ribelle, il giornalista d’assalto, oltre che il responsabile delle risorse umane) dovrà fare i conti con il proprio io, temporaneamente abbandonato per una fuga che li porterà ad una nuova dimensione. Dimensione che scoprono pian piano lungo il viaggio, dove il confronto con la morte della donna (che si vede solo attraverso un breve filmato su un telefonino) farà emergere dentro di loro quella dose di umanità che evidentemente troppo a lungo avevano accantonato. E questo viaggio picaresco offre allo spettatore un terzo piano di lettura: quello di un mondo (l’ex impero sovietico) che sembra un mondo dismesso, fermo a scenari da dopoguerra in cui la corruzione è l’elemento determinate per le nuove dinamiche sociali.
Il film funziona abbastanza bene su tutti i sopra citati piani di lettura, anche se forse il suo limite è quello di non aver scelto fino in fondo il taglio del film. Nel senso che la drammaticità dell’evento da cui si dipana la storia poteva essere indagata con toni più seri, se si fosse voluto fino in fondo rappresentare quel senso di disperazione e solitudine che, immaginiamo, abbia vissuto Yulia e tutti quelli che come lei vengono dalla storia sradicati dalle terre di origine in cerca di una vita migliore che quasi mai arriva. E talvolta quel tono picaresco e molto kusturiziano del road movie stonano con l’elemento drammatico di partenza. Ma ha comunque il merito di porre domande importanti (qual è la terra che ci appartiene realmente: quella dove nasciamo o quella dove viviamo e troviamo la morte?), e ha il merito di trasportare lo spettatore in mondi fisici (reali) ai confini della nostra immaginazione, e in mondi metaforici del nostro animo con il quale dobbiamo sempre fare i conti, anche quando non lo vogliamo.
VOTO: 3,5/5
Articolo del
15/12/2010 -
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