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Dopo la bella trilogia (Amore Perros, 21 Grammi e Babel) con cui il regista messicano si è imposto all’attenzione cinematografica internazionale, e dopo aver sperimentato in ognuno di quei film la struttura narrativa ad incastro di tre storie in ogni pellicola, stavolta Alejandro Gonzales Inarritu sceglie il racconto unico, lineare, profondo ed amaro, e il risultato per fortuna non cambia. Perché questo è davvero un film Biutiful, dove sono presenti tutte le tematiche care al regista, che vengono affrontate senza sconti e senza moralismi di facciata.
Uxbal (uno straordinario ed intenso Javier Bardem che con questa interpretazione ha già conquistato ex-aequo con il nostro Elio Germano la palma d’ora a Cannes per la miglior interpretazione maschile ed è ora candidato all’oscar) ha due figli che cerca di crescere al meglio delle sue possibilità; cioè quelle di una persona torbida, che vive sfruttando manodopera clandestina di qualunque provenienza, sia essa africana o cinese. Cerca di dare loro una vita normale, anche proteggendoli dalla ex moglie che soffre di disturbi bipolari ed aggiunge solo guai a quel contesto già di per se precario e difficile. E come se non bastasse Uxbal è malato di cancro alla prostata, che in breve tempo lo divora trascinandolo in una deriva umana alla quale egli tenterà di reagire fino all’ultimo.
Siamo a Barcellona, oggi: ma non nella Barcellona da cartolina che siamo abituati a vedere al cinema o nei documentari di viaggi: qui la Sagrada Familia o Gaudì rimangono sullo sfondo sfocato, perché Inarritu scende con la sua cinepresa nell’inferno della città. In quelle strade e vicoli dove gli africani sbarcano il lunario vendendo merci di ogni tipo e rischiando in ogni momento la cattura per la retata della polizia e l’espulsione immediata in quanto clandestini. In quei capannoni freddi e sporchi dove centinaia di cinesi sono ammassati in condizioni disumane in attesa di essere collocati dai loro caporali in qualche fabbrica o in qualche cantiere: uomini senza nome, numeri durante la loro vita e fantasmi che nessuno reclama dopo la loro morte. Eccole, quindi, le tematiche care al regista: il tema della frontiera, che sposta sempre più migliaia di profughi moderni verso i nostri paesi e che non possiamo più far finta di non vedere. Il tema della morte, e quello ad esso strettamente connesso dell’aldilà (Uxbal riesce a comunicare con le persone decedute). Il tema della prosecuzione della nostra esistenza attraverso il simbolismo che si trasmette da padre in figlio….
Ed anzi stavolta Inarritu sembra osare di più, forse perché l’ambientazione geografica e le tematiche da lui affrontate sono a noi più vicine che nelle sue precedenti opere. Stavolta sembra voler usare direttamente il protagonista come metafora delle nostre società: malate di cancro. E quel cancro non sono i neri o i cinesi che hanno spostato la loro frontiera dietro quelle che erroneamente continuiamo a ritenere le nostre frontiere; quel cancro è la nostra cecità nel non voler capire le trasformazioni che la storia ha ormai imposto al di là della nostra volontà; quel cancro siamo noi che ci ostiniamo a difendere i nostri privilegi sfruttando la disperazione di chi avvertiamo come nemico; quel cancro non lo si cura con la chemioterapia, ma con l’integrazione, con la comprensione del diverso, con la consapevolezza che quei nostri privilegi acquisiti nel corso dei secoli non potranno più essere solo nostri ma andranno rivisitati e condivisi con chi finora ne è stato escluso, se non vogliamo che tra un po’ i cinesi mangeranno il prosciutto e a noi lasceranno il riso.
E’ un pugno allo stomaco che lascia senza fiato questo bellissimo film, e soprattutto ci lascia con una domanda che sempre mi capita di fare quando si vedono opere che affrontano temi così importanti e che riguardano da vicinissimo anche il nostro paese. E la domanda è: perché noi, pur essendo una delle prime frontiere occidentali che si confronta ormai da anni con flussi migratori (e dunque sociali) di maggior intensità di tutto l’occidente non riusciamo a raccontare (e dunque ad affrontare) quello che accade nella nostra quotidianità se non urlare slogan populisti che non fanno altro che aggravare quel cancro che ci ha raccontato Inarritu? Ma so che la mia è una domanda che necessiterebbe di una risposta complessa e che finora, almeno limitandoci nel campo cinematografico, nessun regista è stato in grado di darmi.
VOTO: 4/5
Articolo del
08/02/2011 -
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