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A tre anni di distanza dall’inaspettato successo del suo debutto in qualità di regista, quel Pranzo di ferragosto con il quale vinse alla mostra di Venezia il premio come Miglior Opera Prima e che lo consacrò come miglior regista esordiente nel 2008 con la vittoria dei due più prestigiosi premi cinematografici, il David di Donatello e il Nastro d’Argento, Gianni Di Gregorio ci riprova. Il prodotto che confeziona stavolta ha molti punti in comune con il suo precedente film: budget limitato, attori non professionisti, simile ambientazione in una Roma borghese e dignitosa, e come nel precedente film di esordio, anche qui Di Gregorio sembra interpretare un personaggio dalle forti tinte autobiografiche. Costretto ad andare in pensione alla soglia dei cinquant'anni (ora ne ha sessanta), trascorre le sue giornate con poca motivazione e molta rassegnazione: ad una madre ingombrante, innanzitutto, nobildonna viziata e lamentosa che lo costringe a correre da lei anche solo per spostare l’antenna della televisione. Alla figlia, che vede vivere una relazione sempre sul punto di finire ma che invece finisce per coinvolgere anche lui per la convivenza forzata con il ragazzo di lei; alla vicina, che organizza rumorose feste e alla quale porta a spasso il cane. Ai vecchietti che siedono al bar sotto casa, e che hanno ancora la forza di avere una amante; e al suo amico Alfredo, avvocato piacione che invece non si arrende all’incedere dell’età che avanza.
Certo non era facile bissare un film così riuscito come il precedente: e difatti stavolta qualche punto di caduta in più c’è. Mentre nel precedente il suo sguardo sulla terza età aveva emozionato, coinvolto e costretto a far riflettere il cinema sul fatto che, in particolare in una società come la nostra, proprio la vecchiaia deve diventare un tema sociale in quanto lì si concentrano sentimenti umani forti come la solitudine, la rassegnazione per un orizzonte temporale che diventa sempre più piccolo, e sul fatto che la vecchiaia diventa la memoria storica di una società, qui l’analisi di Di Gregorio tenta di soffermarsi su di un paio di generazioni precedenti; cioè su quella che oggi viene definita della mezza età, dato che l’orologio biologico ha spostato tutte le fasi di età in avanti a causa dell’allungamento della vita. E sebbene anche questa volta il suo sguardo sia efficace nel cogliere alcuni elementi di cambiamento che un uomo di quella età fatica ad accettare, come appunto il rapporto con le donne che sembra essere diventata un'ossessione comune nel costume sociale moderno, o come il totale senso di smarrimento esemplificato dal cane di razza inclassificabile, il limite di quello sguardo è che sembra essere soffocato da quello della vecchiaia e da quello dell’adolescenza. Rimane poco spazio per quella via di mezzo che lui rappresenta e lascia stavolta troppo sullo sfondo, che invece meritava un grido più forte: quello di chi ha ancora necessità e voglia di sognare, di chi non può e non deve affogare nel bicchiere la sua forzata e prematura esclusione dalla società attiva, di chi ha ancora il diritto ad essere visto come uomo e non deve rassegnarsi ad essere visto come nonno. E la società ha il dovere di dare gli giusti spazi ai tanti Gianni, uomini che sanno certamente rendersi utili se stimolati e fatti sentire ancora parte integrante e non esclusi e marginali in una società ove la saggezza dovrebbe ancora essere una virtù.
Grido troppo debole, stavolta, ma il sussurro arriva comunque: e Di Gregorio ha il grande merito di costruire storie e dialoghi semplici, di gente comune. Ha il merito di essere il nostro vicino di casa; o almeno il vicino di casa che vorremmo tutti, specie in una città come Roma, la sua Roma, dove lo spettro della solitudine ci avvolge tutti, indipendentemente dalle nostre età. E dunque quel sussurro discreto è un ponte di comunicazione che il sessantenne trasteverino sta tentando di lanciare con il suo cinema fatto con pochi soldi e molta autenticità; e sarà bene per tutti ascoltarlo, quel sussurro, perché prima o poi diventerà sempre più forte, e non potremo più far finta di non sentirlo.
VOTO: 3/5
Articolo del
14/02/2011 -
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