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Danny Boyle
127 ore (127 Hours)
Drammatico, durata: 90’ – U.S.A., Regno Unito
2010
Cloud Eight Films, Everest Entertainment, Darlow Smithson Productions, Pathé / 20th Century Fox
di
Omar Cataldi
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Come si suol dire, negli attimi precedenti la propria morte tutta la vita passa istantaneamente di fronte ai nostri occhi. Attimi che, nel caso di Aron Ralston, si sono dilatati fino a durare ben 127 ore (più di cinque giorni).
Il dinamico regista Danny Boyle, accantonata l’India degli slums e degli Oscar di The Millionaire, passa ai polverosi e spettacolari promontori dello Utah, per raccontare l’assurda ma vera tragedia accaduta ad un giovane ed esperto escursionista. E come spesso accade nei grandi film, la tragedia di un singolo uomo può assurgere a parabola per l’intera umanità: rimanere incastrati tra le rocce tanto amate, silenziose e millenarie amiche di tante escursioni, può sembrare una beffa atroce e crudele da parte di Madre Natura. Ma tutto quel tempo passato nella solitudine e nella disperazione di una casuale e immeritata prigionia assume quasi il valore di un’esperienza mistica, un trip in bilico tra realtà e sogno.
Quando si è intrappolati in una landa sperduta, avendo come unico testimone una videocamera portatile e alcuni sparuti uccelli e insetti indifferenti, la mente rumina ricordi, pentimenti, occasioni perse, fantasticherie sentimentali. E per quanto paradossale possa sembrare, in una situazione in cui si rischia la vita, questa esperienza apre una grande finestra sull’interiorità umana: come un monaco eremita si ritira in meditazione nel deserto, Aron vive un momento di (forzato) esilio dal frenetico mondo rappresentato non a caso dalle folle sciamanti dei primi fotogrammi del film. E non è altresì un caso che il titolo stesso del film compaia sullo schermo a pellicola inoltrata, nel momento stesso in cui il protagonista resta incastrato e comincia il suo calvario psicofisico. Come se le sue ripetute e amate escursioni solitarie nello Utah non fossero abbastanza, quel canyon-trappola stava aspettando Aron dall’inizio dei tempi, per fornirgli l’esperienza di vita definitiva… quella che gli chiederà di lasciare un pedaggio.
La mano cinetica di Boyle si serve di un frenetico montaggio per movimentare una storia che è apparentemente l’epitome della staticità, popolando la prigionia di Aron di presenze sia tangibili che mentali, con riusciti esiti didascalici, spesso beffardi (come la sete del personaggio mostrata attraverso immagini pubblicitarie di donne in bikini che bevono bevande ghiacciate). A dare man forte al montaggio e alla regia un magnifico protagonista, James Franco, sobrio camaleonte da tenere sempre d’occhio: centra in pieno il personaggio, svagato e teneramente antisociale.
Con i suoi momenti di acida ironia e tragica introspezione 127 ore è una grande esperienza visiva. Tanto che verrebbe pericolosamente da chiedersi a fine film: quanti di noi non avrebbero bisogno, come Aron, di una pericolosa “pausa di riflessione forzata” dalle frenesie intorno e dentro di noi?
VOTO: 4/5
Articolo del
03/03/2011 -
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