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Tratto dalla storia vera di Micky Ward (Mark Wahlberg) e di come è riuscito ad arrivare al titolo mondiale dei pesi welter, sostenuto dalla famiglia e soprattutto dal fratellastro Dicky Eklund (Christian Bale), ex-pugile finito nel giro della droga.
La mente dello spettatore interessato, per assonanza di titolo e argomento trattato, spinge subito a fare collegamenti con altre due pellicole sorte in diversi contesti ma con denominatore comune il racconto della parabola di un loser che fa della propria professione atletica lo scopo della sua vita. Il riferimento è a The Boxer di Jim Sheridan e The Wrestler di Darren Aronofsky, sorretti nell’ordine da dei magnifici Daniel Day-Lewis e Mickey Rourke. Il binomio pugilato-cinema (compresa la sua declinazione wrestling-cinema) ha sempre affascinato, entrato di prepotenza nell’immaginario collettivo con Rocky ma iniziato ancor prima (Lassù qualcuno mi ama, Toro scatenato, e poi via con Alì, The Million Dollar Baby, Cinderella Man, per citarne alcuni), proprio perché portatore della metafora più immediata, dell’affrontare la vita come una serie di sfide che si possono superare solo con la giusta motivazione. Non si parla di film sul pugilato, non ricordo a memoria un film che parlasse di pugilato, ma di film che veicolano storie di vita e di sfide tramite il pugilato. Perdonatemi la doverosa premessa, inevitabile per un film che si inserisce in una strada solcata da così illustri predecessori.
Si capisce subito che David O. Russell (Three Kings, I Heart Huckabees) non cerca facili spettacolarizzazioni né non vuole creare miti partendo da casi umani. Camera a spalla e via, in mezzo alla strada, a seguire quasi documentaristicamente le vite di due fratelli, da sempre legati nel bene e nel male. Il testimone per la regia di questo film gli arriva proprio da Aronofsky, il designato iniziale, ed è facile scorgere le somiglianze col suo Wrestler. Nel film interpretato da Rourke, il personaggio incarnava tutte le caratteristiche del perdente: il ricordo sbiadito di una carriera di successo, una vita familiare disastrosa, pochi soldi da spendere solo in alcol e nessuna prospettiva. Ma la voglia di riprovarci, perché se nella vita sai fare bene solo una cosa, non ti resta che quella, e moriresti pur di avere l’ultima chance. In The Fighter queste caratteristiche vengono scisse nei due protagonisti, l’uno il complemento dell’altro. Micky conduce una vita onesta e leale, ma dopo quattro knockout consecutivi necessita della motivazione e del supporto di Dicky, il fratellone-mentore che l’ha cresciuto e istruito al mondo della boxe. Dicky ha ormai tutta l’apparenza dello sbandato, passa le giornate a fumare crack e stordirsi con altri perdigiorno, vive con il ricordo di essere stato “l’orgoglio di Lowell” per aver messo al tappeto uno Sugar Ray Leonard che ora fatica pure a riconoscerlo. Ma aggrapparsi ad uno sbiadito ricordo di un giorno di gloria e alla grande occasione che non hai mai avuto non fa altro che palesare il fallimento in cui hai trasformato la tua vita, non fosse altro che qualcosa da dare ce l’hai ancora. E quel qualcosa è la capacità di tirar fuori la forza al fratello che la grande occasione l’ha davvero fra le mani.
Protagonista o meno, la vera colonna portante del film è Christian Bale, attore multiforme che fa del corpo il suo attrezzo modellandolo a misura, perdendo o acquisendo decine di chili in base a cosa prevede lo script. Pare di vederlo ai tempi de L’uomo senza sonno, scavato in volto, uno scheletro coperto di pelle. E’ lui l’anima della pellicola, il suo personaggio è il fulcro attorno al quale cambiano le sorti di chi ha attorno, è il fratello matto che da solo riesce a vederti dentro e tirarti fuori il carattere di cui hai bisogno. Meritatissimo l’Oscar da non protagonista, anche se il suo ruolo resta il principale. Buonissima interpretazione anche per Wahlberg e Melissa Leo (suo l’altro Oscar per non protagonista femminile). La storia appassiona e coinvolge, e, come nei migliori film di Sheridan (non a caso citato a inizio articolo), scava nel privato di persone vere, vicende drammatiche immerse in una triste quanto crudele realtà che nonostante forgi e fortifichi la scorza esterna degli attori del suo palcoscenico, li segna all’interno, condannandoli ad essere emblemi di certe sfortunate situazioni sociali. Il film soffre però di un calo nella seconda parte, O. Russell preferisce dilatare i tempi, ma un taglio di un quarto d’ora (verso un finale anche troppo lieto) avrebbe sicuramente giovato, soprattutto al pubblico medio.
VOTO: 3,5/5
Articolo del
09/03/2011 -
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