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Ogni riferimento alla Parmalat non è puramente casuale. Perché Andrea Molaioli, dopo il convincente ed acclamato esordio alla regia del 2007 con La ragazza del lago, in cui aveva prediletto un'analisi introspettiva di una vita partendo dalla sua morte, stavolta racconta l’ascesa e il declino di una corporation che è esattamente (o quasi) quella che fu l’ascesa e il declino di uno dei più grandi gruppi industriali italiani. E lo fa scegliendo non tanto il taglio di indagine approfondita del fatto storico e della minuzia del suo racconto, quanto quello della metafora di ciò che è stato, a ben guardare, l’evolversi e il dissolversi del capitalismo italiano in particolare e di quello mondiale in generale.
Il dottor Rastelli (un bravissimo Remo Girone, talento sempre troppo poco utilizzato dal cinema italiano) è il padre-padrone dell’azienda di famiglia partita come salumificio ed ora diventata leader nel settore agroalimentare. Ai posti di comando ha messo figlio, nipote e uomini fidatissimi come il direttore finanziario Botta (il forse troppo utilizzato, ma sempre straordinario, Toni Servillo), ragioniere di vecchio stampo, burbero e sgradevole ma completamente devoto all’azienda. Stiamo dunque parlando di Calisto Tanzi e di Fausto Tonna, e stiamo parlando di quegli anni che, nel giro di un decennio (dal 1992 ai primi anni del nuovo secolo) hanno sgretolato un impero fatto di connessioni politiche, di investimenti sbagliati in mercati poco recettivi, e soprattutto di un graduale ed inesorabile passaggio dalla produzione di beni (come latte, succhi di frutta, dolciumi, merendine) a quella di prodotti finanziari sempre meno trasparenti (i cosiddetti derivati).
Ecco dunque che quella storia del crack Parmalat diventa storia, perché li dentro ci sono banchieri corrotti, politici consenzienti, manager truffaldini e capaci di mascherare i conti nei bilanci ma non di evitare che le voragini di quei conti inghiottano dapprima i risparmiatori che avevano creduto nei prodotti offerti loro sul mercato, poi i manager ed infine l’azienda stessa. Dentro quella storia c’è il passaggio epocale da un capitalismo basato, fino al crollo del muro di Berlino, sulla produzione di beni che avrebbero dovuto diffondere benessere, a quello di servizi finanziari che hanno creato tutte le premesse per quella crisi mondiale del 2008 di cui ne paghiamo (tutti noi cittadini comuni e comuni mortali) ancora le conseguenze. Dentro quella storia c’è la memoria storica del dottor Rastelli, che ha iniziato producendo latte perché "dopo la guerra la gente rinunciava al lusso, ma non poteva rinunciare al latte". Ed ora che si erano aperti gli immensi mercati dell’est dopo la caduta del muro, quel latte sarebbe servito "a tutti quei bambini che non erano stati mangiati dai comunisti".
E il film di Molaioli la racconta bene, quella storia. Fotografando in maniera puntuale ed efficace, ad esempio, il passaggio da un vecchio e fedele management aziendale (il suddetto burbero Servillo) ad una nuova, rampante ed egoista classe dirigente che non esita a sottrarre capitali per se stessa non appena intuisce che la barca affonderà. Smascherando una delle grandi ipocrisie del nostrano modo di fare imprenditoria, che si vanta si produrre valori oltre che prodotti, ma dietro quella finta maschera etica non esita a truccare bilanci a danno degli azionisti e dei risparmiatori, né a cercare il favore politico o della stampa in quanto sono tutti a libro paga. Raccontando storielle che danno esattamente il senso di quello che è, ed è sempre stato, il messaggio più lampante di un sistema capitalistico. E che non poteva non essere raccontato se non da quella straordinaria ed intensa espressione del burbero Servillo: "a diciotto anni il giovane Rockfeller non aveva un soldo: vendette una mela per 50 cents. Con quelli ne comprò due a 25 cents e le vendette ad 1 dollaro l’una... Poi, a diciannove anni, ereditò dalla nonna 100 milioni di dollari...".
VOTO: 3,5/5
Articolo del
11/03/2011 -
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