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Ok, manca Groucho. Ma quello della spalla comica è probabilmente il problema minore di questo Dylan Dog di Kevin Munroe. Pure i muri sono consapevoli dell’importanza che il personaggio creato da Tiziano Scalvi nel lontano 1986 ha avuto nell’avvicinare almeno due generazioni di italiani al mondo del fumetto. Vendite strabilianti. Prime, seconde, terze e pure quarte ristampe. Fanatismo sfrenato e successo clamoroso a fronte di una qualità (tra sceneggiature e disegni) quasi sempre altissima. All’estero le cose, forse, non sono andate altrettanto bene ma abbastanza da creare una discreta fan base e convincere – qualche anno fa - un piccolo studios cinematografico, i Platinum, ad accaparrarsi i diritti.
Dopo una gestazione alquanto travagliata, un progetto più volte rivisitato e mille beghe legali (il già citato Groucho Marx, il cambio di location e pure il Maggiolone bianco), il risultato finale, in anteprima mondiale in Italia, è finalmente sotto l’occhio, attento e critico, di fans e non. Ecco, beh…forse sarebbe stato meglio non vedere affatto questo risultato. Perché avere problemi con i diritti è lecito ma sbagliare tutto il resto, assolutamente, no. Una trama risibile e priva di alcuno spunto di interesse, personaggi senza mordente, dialoghi sciatti e lontani dal (molto più profondo) spirito originale della serie. Questi gli ingredienti di un carrozzone degno delle peggiori produzioni da home video only e “suggellato” dalla scelta del palestrato con testa di gallina Brandon Routh nel ruolo di protagonista. Il peggior casting nella storia dei peggiori casting. E non bastano certo le poche citazioni infilate qua e là (ma molte della quali aggiunte dal doppiaggio italiano) a migliorare la situazione. Potremmo sparare ancora contro la produzione diretta da Kevin Munroe, ma sarebbe come infierire sul corpo di un agnellino nato zoppo. Che poi, a ben guardare, Munroe certe scene non le gira neanche tanto male, se non fosse che il montaggio (con l’aiuto dell’inutile voce off del protagonista) si riduca ad essere un mero collage posticcio di brevi sequenze narrative atte a giustificare i frequenti spostamenti di Dylan dal luogo A a quello B e viceversa (passando pure da C, qualche volta).
Decisamente meglio, insomma, andare a rispolverare l’indimenticato e, fin troppo, sottovalutato Dellamorte Dellamore (1994) di Michele Soavi. Un film ben più coraggioso e capace di recuperare le lugubri ed affascinanti atmosfere nate dalla mente di Scalvi, e soprattutto forte di un Rupert Everett, ovviamente, perfetto nel ruolo di Francesco Dellamorte/ Dylan Dog.
VOTO 0,5/5
Articolo del
23/03/2011 -
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