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Prima di parlare del film Offside, del regista iraniano Jafar Panahi, è doveroso fare un breve excursus sul suo curriculum, non solo per mettere in evidenza lo spessore di un artista poco conosciuto ai più, ma anche e soprattutto per sottolineare il complicato contesto in cui il regista è riuscito a girare i suoi film (quasi tutti vietati in patria). Dapprima assistente del maestro Abbas Kiarostami e poi regista di premiati film come Il palloncino bianco (Camera d’or al festivale di Cannes nel 1995), Il cerchio (Leone d’oro al festival di Venezia nel 2000), Oro rosso (premio della giuria a Cannes nel 2003), Panahi è stato arrestato nel marzo del 2010 da agenti del presidente Ahmadinejad: noto oppositore del regime, era stato accusato di aver tentato di girare un film "scomodo" sulle proteste antigovernative. Rilasciato poi nel maggio dello stesso anno dietro pagamento di una cauzione, è stato comunque condannato (dicembre 2010) a sei anni di reclusione. Inoltre gli è stato impedito, per i prossimi vent'anni, di scrivere, dirigere film, rilasciare interviste e viaggiare (non solo all’estero, ma anche all’interno dell’Iran). Ecco, con ciò si vuole sottolineare che stiamo parlando di un artista che sta pagando in prima persona il suo dissenso al regime islamico iraniano; e stiamo parlando di uno dei numerosi appartenenti all’intellighentia di quel paese a cui viene impedito di poter mostrare al mondo le facce scomode del regime. Detto questo, arriva da noi, con colpevole ed immenso ritardo, Offside, film del 2006 che in quello stesso anno vinse il leone d’argento a Berlino (e che quest’anno la giuria della 61esima Berlinale ha ripresentato in selezione ufficiale, per sostenere il regista e la sua voce e manifestare la completa solidarietà all’artista per i succitati eventi della sua vicenda personale). Siamo a Teheran, nel 2005, ed è un giorno speciale: è il giorno in cui l’Iran si gioca la qualificazione per l’accesso ai mondiali di calcio che si svolgeranno in Germania l’anno successivo, e se la gioca contro il Bahreim. Tra le tante altre discriminazioni esistenti nel paese islamico, alle donne non è consentito assistere ad eventi sportivi, in quanto deve essere loro impedito di sedere accanto a degli estranei che per di più dicono parolacce. Nonostante gli attenti controlli delle guardie islamiche dentro e fuori dello stadio, alcune ragazze, travestite da uomini, tentano di sfidare la sorte. Si ritroveranno in un recinto transennato, all’ultimo anello esterno degli spalti, ed è li che assisteranno alla loro immaginaria partita. Riprendendo l’esplorazione della condizione della donna nel mondo islamico già iniziata con Il cerchio, Panahi, che è riuscito a girare molte scene del film proprio durante quella giornata e quella storica partita (l’Iran riuscirà a qualificarsi) costruisce il suo rettangolo di gioco all’esterno, in offside, al di fuori delle tribune e con le voci degli spettatori che assistono in sottofondo. Ed è in quel rettangolo che piazza la sua macchina da presa ed indaga sulla complessità di una società ingessata tra la modernità che vuole emergere e la tradizione che viene imposta dal regime. È in quel gruppetto di ragazze e dei militari che le devono controllare che riassume metaforicamente tutte le contraddizioni di un paese dove l’emancipazione femminile si scontra con retaggi di fanatismo religiosi e familiari; dove la leva militare obbligatoria è spesso vissuta come una inutile forzatura di inefficiente distacco per quelle classi rurali che vivono ancora di pastorizia, e che sono chiamati a difendere una patria di cui non conoscono e non riconoscono in nulla neanche i compatrioti, spesso immensamente diversi perché cittadini. E’ vero, in fuorigioco lì ci sono sicuramente le donne con la loro condizione discriminata, ma forse ci sono tutti i personaggi che incontriamo, dal padre che cerca la figlia e che non riconosce quella gioventù cosi trasformata ai suoi occhi, agli spettatori che cercano di proteggere le ragazze in una sorta di complicità giovanile che, verrebbe da dire, è il nuovo che avanza. Insomma in fuorigioco c’è l’Iran, che ancora una volta questo grande artista ha così delicatamente raccontato, con il tocco magico di chi non ha necessità di usare scene di violenza (basterebbe pensare a quelle che abbiamo visto lo scorso anno durante le manifestazioni contro il regime) per colpire l’immaginario collettivo. A lui basta il racconto pacato, vissuto con il lento ritmo degli accadimenti, per mettere a nudo le debolezze e al tempo stesso le straordinarie potenzialità di un popolo immenso, che lotta quotidianamente per il proprio futuro contro un regime autoritario che ne impedisce troppo spesso l’espressione. A lui basta una macchina da presa messa fuori dallo stadio per farci capire che non possiamo essere sempre i privilegiati che assistono agli eventi della storia comodamente seduti sugli spalti; quella macchina da presa ci racconta che una partita ha sempre un esito incerto, ed anche qualora la si voglia giocare in un piccolo recinto controllato a vista da chi ha stabilito le regole della gioco, il risultato finale non è mai scontato. A lui, Jafar Panahi, va tutta la nostra solidarietà, come artista e soprattutto come uomo.
VOTO: 3,5/5
Articolo del
13/04/2011 -
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