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Dopo la parentesi solo apparentemente ironica e leggera de Il mio amico Eric, Ken Loach torna a fare il Ken Loach, cioè il regista che indaga e si esprime su temi scottanti del suo e del nostro tempo, senza ipocrisie di mestiere e come sua abitudine dicendo sempre da che parte sta. Basta scorrere il lungo elenco dei suoi film, ove oltre ad aver affrontato più volte le crescenti difficoltà sociali ed economiche delle classe operaia inglese (Riff Raff e Piovono pietre), dopo essersi espresso chiaramente a sfavore delle privatizzazioni selvagge dell’epoca Tatcher (Paul, Mick e gli altri), dopo aver ricostruito con sguardo partigiano eventi storici importanti come la guerra civile spagnola (Terra e libertà) o la rivoluzione sandinista in Nicaragua (La canzone di Carla) e ancora la guerra civile irlandese (Il vento che accarezza l’erba), era quasi obbligata una tappa professionale che lo portasse ad esprimersi su quella sporca guerra ancora in corso in Iraq. E lo fa scegliendo come terreno di analisi quel mondo dei contractors (cioè dei mercenari), professionisti profumatamente pagati per occuparsi della sicurezza delle imprese straniere che hanno interessi ed investimenti spesso poco trasparenti nei paesi teatri di guerra.
Fergus e Frankie sono due di loro: amici d’infanzia, hanno sempre condiviso tutto, spesso anche le donne. Sono andati laggiù, in quella sporca guerra, ma mentre Fergus è tornato in Inghilterra, Frankie viene ucciso a Bagdad, proprio su quella Route Irish considerata la via più pericolosa del mondo (quella via dove trovò la morte anche il nostro connazionale Nicola Calipari, mentre proteggeva la giornalista Sgrena per riportarla in Italia). Ma le cause della morte di Frankie non sono chiare: forse "era nel posto sbagliato al momento sbagliato", gli dicono, ma Fergus, che lo conosceva bene, sa che il suo amico non era tipo da compiere imprudenze che potevano costargli la vita. Così decide di indagare, aiutato dalla compagna di Frankie. Si scontrerà con quel mondo di affaristi senza scrupoli che devono evitare scandali o scomode verità per non mettere a rischio i lucrosi contratti con le aziende che devono investire in Iraq.
Loach, attraverso il personaggio di Fergus, crea una sorta di binario parallelo tra un teatro di guerra lontano, feroce, inospitale, tenuto sullo sfondo e richiamato di tanto in tanto con efficacissime scene vere di guerra, che dobbiamo avere il coraggio di guardare senza chiudere gli occhi, e la Liverpool del protagonista, che ha visto in quel mestiere del contractor, e soprattutto nella sua elevata retribuzione, una possibilità concreta per il suo riscatto sociale. L’inferno, fisico e morale, che pian piano viene fuori dallo svelarsi della verità, è un inferno che trascina lo spettatore su un comune terreno morale, che coinvolge tanto il protagonista che lo spettatore. E’ vero che chi va laggiù e ci va uccidendo senza pietà donne e bambini inermi, sono uomini che dovranno poi rispondere alle proprie coscienze, come Fergus, che vedrà tutte le sere l’immagine straziante di una bambina massacrata da una bomba che lo indica (e dunque in questa immagine c’è tutto il senso di colpevolezza di chi è laggiù a combattere, sia esso un soldato americano, inglese o mercenario); è vero che chi è laggiù ed utilizza certi metodi di tortura ai danni di inermi civili è direttamente responsabile dell’odio che inevitabilmente si imprime nella memoria collettiva di quel popolo nei confronti degli occidentali (Fergus dirà: "quando facevamo rastrellamenti nelle case, per i nostri metodi se quelli non erano di Al Quaida lo diventavano un minuto dopo"). Ma è altresì vero che noi spettatori siamo del tutto estranei a quella sporca guerra, e non ne siamo per nulla responsabili? Non sono forse molto vicini a noi e molto lontani da quel teatro di guerra gli occulti burattinai che muovono le fila di quello e di altri conflitti, dove continuano a morire migliaia di innocenti senza che si intraveda una strada diplomatica che ponga fine al conflitto e salvi vite umane? Forse ci siamo davvero tutti dentro, anche come spettatori passivi ma influenti. E fa bene Ken Loach a portarci in quell’inferno della guerra e della coscienza. Perché è da quell’inferno che dobbiamo partire per trovare le risposte che ad oggi non riusciamo ad esprimere, ma che il mondo tutto attende, per poter diventare migliore.
VOTO: 4/5
Articolo del
28/04/2011 -
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