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Purtroppo non saranno in molti a vedere Et in terra pax, perché come prassi ormai fin troppo consolidata film low cost ma di alta qualità non necessariamente commerciale vengono distribuiti nelle nostre sale poco, tardi e male. E così questa coraggiosa, toccante, secca e necessaria opera prima di due giovani registi, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, nonostante sia stata presentata allo scorso festival di Venezia nel 2010 nella sezione Giornate degli autori, accolta da un lungo applauso, e girata con un budget ridotto e compartecipato (gli attori, non professionisti, prenderanno una percentuale sugli incassi) rischia di passare del tutto inosservato, date le pochissime sale dove è in programmazione e dato il periodo scelto della sua uscita, che di certo non lo aiuta ad avere la meritata visibilità.
Pazienza: ci proviamo noi a segnalarvelo, perché sarebbe un peccato non vedere un’opera che ha il merito, non piccolo, di focalizzare lo sguardo ed analizzare a fondo la condizione odierna delle periferie delle grandi città. Siamo a Roma, esattamente al Corviale: cioè siamo nel cuore della più degradata periferia e del più aberrante esperimento architettonico, soprannominato dai romani il Serpentone, costituito da due palazzi lunghi un chilometro, uno di fronte all’altro, con all’interno ballatoi che inevitabilmente sono diventati da subito covo e rifugio di degrado, sporcizia, violenza. Siamo a Roma, dicevamo, ma la Roma delle cartoline è lontana migliaia di chilometri, e qui non è neanche sullo sfondo. Qui potremmo essere nella periferia di una qualsiasi grande città, o potremmo essere alle famose vele di Secondigliano, a Napoli. Non cambierebbe nulla, perché dentro quelle volgari colate di cemento c’è di per sé l’umiliazione della persona umana, la condanna ad un contesto senza speranza, la discriminazione di un non luogo poggiato lì, ai margini della città vera, dove non si sente il rumore del traffico o le risate allegre e spensierate dei tanti turisti che affollano il centro. Qui si sente il silenzio dell’incomunicabilità, il dolore dei sogni che svaniscono troppo presto; qui si sente una lontananza abissale con il resto del mondo che i motorini sgangherati dei protagonisti non potranno mai colmare. No, loro sono destinati a rimanere lì, in quella gabbia che li ha già resi sconfitti, a prescindere. Come Marcolino, che appena uscito dal carcere vorrebbe poter avere una vita onesta, ma la sua deriva è già segnata dal destino. O come Sonia, che studia e lavora, per avere un futuro che non avrà mai, perché anche lei condannata in quella gabbia della quale non vedi le sbarre ma pian piano intravedi i contorni dei tuoi carcerieri.
Sguardo lucido, freddo ma intenso, partecipato e coinvolgente: quello dei due giovani registi ha la potenza d’impatto emotivo per tutto ciò che decidono di mettere sotto la lente d’ingrandimento della loro macchina da presa, con cui filmano magistralmente una violenza quasi metafisica (drammatica, ma bellissima, la scena dello stupro, dove inquadrano mani che si stringono con forza e che lottano in un disperato tentativo di affermazione e difesa della propria identità negata). Ma quello sguardo è efficace anche quando descrive ciò che lo spettatore non vede, come quello che Marcolino racconta dallo squallore di una panchina in cui tutti i giorni vede i rumeni lavorare al cantiere, o il vecchio signore che alla stessa ora si affaccia per fumare, o sua moglie che prepara il caffè per i rumeni. È lo sguardo degli ultimi, dei marginali, dei tanti nessuno che sono sempre più numerosi; è lo sguardo che mette imbarazzo ai nostri sguardi. È un grido che è già stato gridato: da Pasolini, da Walter Siti, da quegli artisti ed autori che non hanno paura di entrare nelle realtà scomode, raccontarle, indagarle, senza necessariamente giudicare da che parte stia il bene o il male. Ma semplicemente partendo dal dato di fatto, per far ascoltare a tutti quel grido di rabbia e disperazione; perché tutti, poi, dovremmo sentirci coinvolti nel trovare una via d’uscita. Perché per tutti, noi compresi che siamo fuori da quel contesto, vale quello che dice Marcolino: “Se mangi, se respiri, se cammini, non vuol dire che sei vivo”. La vita è qualcosa di più grande, che ha senso e va vissuta se è vita per tutti. Altrimenti le sbarre di quella gabbia invisibile, da cui ora ci sentiamo liberi, prima o poi inghiottiranno anche noi, nessuno escluso. E allora non saremo più in grado di riconoscere quel grido di rabbia e di disperazione che arriva lancinante dalle nostre borgate: perché quel grido sarà il nostro, e non ci sarà più nessuno fuori che ci potrà ascoltare.
VOTO: 4/5
Articolo del
01/06/2011 -
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