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Con questo film Almodovar sembra voler sorprendere un pubblico ormai sempre più abituato al suo stile, alla sua “poetica”, optando non per un cambiamento a livello di espressione e di topoi (sono presenti infatti l’ambiguità sessuale, la perversione, i rapporti madre/figlio e l’ironia tipici del suo cinema), bensì per una scelta di ambientazione, genere, storia (basata sul romanzo Tarántula di Thierry Jonquet) e una struttura più diverse, frammentate e surreali del solito: stiamo parlando di un thriller drammatico, con risvolti fantascientifici, sociali e affettivi decisamente fuori dagli schemi.
Robert Ledgard (Antonio Banderas) è un chirurgo che grazie al processo di transgenesi, considerato illegale dalla comunità scientifica, riesce a creare un tessuto epidermico resistente a tutto. Robert vive a Toledo in una villa che è anche la sua clinica privata (ma anche laboratorio di uno scienziato pazzo) con la governante Marilia (Marisa Paredes) e una donna, Vera (Elena Anaya), da cui è ossessionato, che tiene segregata in una stanza e perennemente controllata da videocamere a circuito chiuso. La fastidiosa e violenta incursione nella villa del figlio di Marilia, il rozzo e selvaggio Zeca (Roberto Àlamo), cambierà i rapporti tra Robert e Vera e darà il via al lungo flashback che ci spiegherà come si è giunti a quella ambigua e malata situazione svelando allo spettatore macabri particolari dell’intricato dramma.
E soffermandoci proprio sulla struttura narrativa possiamo tranquillamente affermare che è questa la caratteristica più forte de La piel que habito, perché attraverso l’intreccio su tempi narrativi diversi lo spettatore arriva lentamente a comprendere le motivazioni e la follia presentate nei primi minuti del film giungendo a colpi di scena forti, coraggiosi, pesanti da digerire. Eppure qua e là troviamo battute ironiche, eccessivamente ironiche, messe in bocca a personaggi protagonisti di un dramma: uno strano elemento che quasi ridicolizza alcune situazioni come succede nel più banale dei film d’azione americano. Tuttavia, contrariamente a questo senso di ridicolo che si avverte un paio di volte, sono presenti trovate “autoriali” che strizzano l’occhio al concetto di cinema stesso, di voyeur (che sarebbe poi lo spettatore), e quindi al metacinema (penso al personaggio di Banderas che dalla sua stanza spia attraverso uno schermo gigante Vera, consapevole di essere ripresa, proiettata su uno schermo e quindi osservata, la quale dorme esattamente nella camera accanto, dietro la sua immagine gigante: è uno schermo che divide fisicamente, un ostacolo da superare).
La pelle quindi è la vera protagonista del film, tutto ruota attorno a questo strato epidermico superficiale dell’essere umano. Forse il film stesso ha una sua pelle e Almodovar l’ha sfiorata, accarezzata, ferita, tagliata e poi ricucita rischiando, ma con l’intento di creare qualcosa di leggermente diverso.
VOTO: 2,5/5
Articolo del
06/10/2011 -
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