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Che da alcuni anni si assista a un cinema che porta avanti un suo personale discorso sulla disintegrazione della perfetta e felice famiglia americana stile pubblicità Mulino Bianco, è un dato di fatto, e la 68ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia conferma questa tendenza, ospitando all’interno del suo Concorso più di un titolo che ci mostra il dietro le quinte di una famiglia non proprio convenzionale (vedi il geniale Killer Joe del settantaseienne William Friedkin o anche l’ultimo gioiellino di Todd Solondz, Dark Horse). Probabilmente la scelta non è troppo casuale. Il lavoro svolto in questi otto anni dal direttore Marco Muller è stato un continuo interrogarsi sul ruolo dell’arte e, quindi, forse, questi film ci dicono magari qualcosa su una certa volontà, di certe cinematografie, di riflettere sulla spaventosa società contemporanea. Al secondo lungometraggio, dopo il poco visto Morning del 2001 e molto tirocinio iniziato già dall’età di sedici anni nelle serie televisive americane, come Crime Story, Ami Canaan Mann, figlia d’arte (di Michael Mann, qui nelle vesti di produttore), ritorna dietro la macchina da presa con un film di genere, Texas Killing Fields, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, con al centro della narrazione un’altra famiglia americana che scopriremo non tanto tradizionale.
Alla base della sceneggiatura, scritta da Donald Ferrarone, ex agente Dea, c’è un fatto di cronaca irrisolto, il ritrovamento fin dagli anni sessanta, in un’area paludosa nota come Killing Fields, a Texas City, una piccola cittadina del profondo sud, di innumerevoli corpi di donne uccise, dopo essere state seviziate per opera di assassini diversi. Nonostante sia un film di genere, la Mann realizza una pellicola sfuggente a qualsiasi classificazione: Texas Killing Fields non è un poliziesco, non è neanche un film drammatico e non è un thriller, ma è tutto questo messo insieme. L’opera ha infatti un taglio fortemente autoriale che rischia incomprensioni. Tutti i componenti - dalla regia alla recitazione, dalle musiche alla scenografia fino alla fotografia - che danno forma al film, funzionano alla perfezione, eppure c’è qualcosa che gli ha impedito di fare il grande salto che tutti ci auspicavamo, rimanendo solo a pochi passi dall’essere un capolavoro. Cosa non torna in Texas Killing Fields? A nostro avviso il limite che ha colpito una mano ispirata come quella di Ami Canaan Mann è la mancanza di sequenze d’azione in linea con i cliché del genere stesso: manca la suspense o le scene spettacolari a effetto a sorpresa praticamente per tutta la durata del film; ed i colpevoli, si potrebbero individuare fin dalle prime inquadrature. Un progetto intricante, ma riuscito solo in parte, proprio per questi motivi. Insomma sembra funzionare meno la patina di genere del film, e più efficace e coerente risulta il discorso complesso che ruota intorno al milieu entro cui si dipana la storia con una tale abbondanza di simboli e dettagli, capaci di parlare da soli dello stato di abbandono sia fisico che culturale in cui vivono i personaggi.
Ci troviamo di fronte, comunque, a un’opera con tutti i crismi, che non fa rimpiangere la visione, perché mette in mostra una regista che possiede uno sguardo sensibile e personale, capace di differenziarsi con originalità anche dall’estetica paterna. In un cast molto affiatato e di altissimo livello che vede Jeffrey Dean Morgan, Sam Worthington, e Jessica Chastain, tutti inseriti nella plumbea fotografia di Stuart Dryburgh che aggiunge cupezza alla storia e alle surreali ambientazioni dei Killing Fields (scelti da Aran Mann, scenografa, nonché sorella della regista), il personaggio più straordinario è quello della giovane, ma già talentuosa Chloe Moretz (qui nella parte dell’adolescente trascurata dalla madre e dal fratello, ma adottata moralmente dall’agente di polizia Heigh), che con la sua presenza scenica sbaraglia tutti.
VOTO: 3,5/5
Articolo del
09/10/2011 -
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